La speculazione energetica dietro il sostegno israeliano dell’indipendenza del Kurdistan iracheno

Di Elisa Gennaro

 

Le recenti dichiarazioni dei leader israeliani a favore del riconoscimento di un Kurdistan indipendente in territorio iracheno non rappresentano una novità dal momento che le parti sono in comunicazione da almeno cinquant’anni.
Israele e curdi d’Iraq sono legati da una collaborazione in campo militare sin dagli anni ‘60 con il rifornimento di armi da Israele e training dei militari curdi (Peshmerga), numerose sono le società israeliane per la sicurezza e le telecomunicazioni presenti nel nord dell’Iraq e Israele è un acquirente fidato del petrolio estratto dai curdi.

 

Lo Stato ebraico inoltre, non ha vincoli diplomatici con il governo centrale iracheno e pertanto può portare avanti transizioni commerciali con l’entità para statale curda senza temere crisi con Baghdad.
Non saranno certamente considerazioni di carattere democratico o la genuina solidarietà con una minoranza ad aver portato i leader di Israele a rendere noto di voler riconoscere il Kurdistan!
Interessi economici si perseguono nel progetto israeliano di balcanizzare Medio Oriente e Nord Africa, gettandoli nel caos proprio attraverso la manipolazione delle minoranze nella regione.

 

Ora, contestualmente all’ufficializzazione della posizione israeliana, trapela pure la notizia dell’ultima vendita di greggio curdo a Israele.
Non è, infatti, la prima transizione commerciale tra le parti, bensì la quarta spedizione e, alla luce dell’evoluzione politica curda, gli aspetti finanziari diventano un obiettivo decisivo per il Kurdistan poiché senza stabilità economica lo Stato curdo resterà debole in un contesto – quello iracheno – già vulnerabile e dal destino incerto.
I curdi di questo ne sono consapevoli e l’alleanza con Israele riflette una loro visione di forza politica che è pure alla base dell’intesa con la Turchia, primo importatore della produzione curda.

 

Proprio con la Turchia esiste un accordo di cinquant’anni per la vendita di petrolio estratto nel nord dell’Iraq e che non tiene conto dell’autorità del governo iracheno.
Dal 2005 la leadership curda ha ottenuto da Baghdad il riconoscimento di un governo regionale curdo nel nord dell’Iraq, gli Stati Uniti ne chiedevano la partecipazione al processo politico, ma da allora i curdi hanno dato vita a un mini Stato nello Stato.
Il territorio sul quale vivono è delimitato da frontiere controllate dai Peshmerga, hanno un Ministero degli Esteri, si sono svolte elezioni, hanno un presidente, Barzani, alcuni Consolati sono ospitati ad Erbil e, soprattutto, vivono nella regione irachena più ricca di giacimenti petroliferi.
Questa fu la ragione per cui, negli anni dei Mandati internazionali, lo Stato curdo non sorse mai. Evidentemente col passare del tempo le strategie – degli altri – cambiano e oggi l’Iraq è il luogo dove meglio si manifestano questi cambiamenti.

 

Al fine di garantire al proprio Stato un’indipendenza economica, la leadership curda punta all’aspetto energetico con l’esportazione di ingenti quantità di petrolio attraverso l’oleodotto costruito nel dicembre 2013 collegato al porto turco di Cehyan. Questa scelta è al centro di dispute politiche con il governo centrale iracheno ed è giunta nel foro legale.

 

Per il governo centrale – che deve gestire la quinta riserva di petrolio al mondo – il comportamento dei curdi è un affronto alla propria sovranità nazionale – la stessa che gli Usa affermano di voler garantire – e, sostengono da Baghdad, “il greggio estratto a nord del Paese deve attraversare la rete nazionale di oleodotti”.
Secondo il governo regionale curdo invece, la gestione autonoma delle risorse del proprio territorio non è incostituzionale e non costituisce alcuna violazione dal momento che non esiste un contratto che ne regola la gestione.

 

Non avendo finora avuto alcun effetto l’azione legale verso il governo regionale curdo, Baghdad ha congelato il budget destinato a Barzani, creando disagi nei pagamenti degli impiegati curdi. Anche in reazione a questa scelta, i leader di governo curdi intendono promuovere e potenziare le esportazioni di petrolio ad un prezzo competitivo, e lo fanno nell’ottica di quadruplicarne la quantità venduta.
A differenza di Israele, numerosi Paesi sono vincolati con il governo iracheno da accordi commerciali o da intese per il boicottaggio di Israele e non accettano di acquistare il greggio curdo.
Questo la leadership di Erbil lo sa bene e il porto Turco di Cehyan – dove arrivano 120mila barili al giorno – funge da banco di vendita.

 

Sapendo quanto sia limitato il proprio bacino di potenziali acquirenti, durante il tragitto si fa richiesta di acquisto del greggio ai Paesi che si attraversano ed è accaduto spesso di ricevere dinieghi di accesso, come ha fatto Malta, o di vedersi rispedire indietro le cisterne come nel caso del Marocco.
Un’altra tattica adottata dai curdi per raggirare la provenienza del greggio, o per mascherare il destinatario quando questo era Israele, è il trasferimento del greggio da una cisterna all’altra.

 

Il 20 giugno scorso è stata scaricata nel porto israeliano di Ashkelon una cisterna di greggio battente bandiera della Liberia e partita dal Kurdistan, e proprio dal nord dell’Iraq lo stesso giorno era giunto nel porto turco di Cehyan un carico di greggio, presumibilmente lo stesso giunto ad Ashkelon.
I curdi, che spesso preferiscono non commentare, questa volta hanno fatto sapere che il petrolio era stato venduto alla Turchia senza specificare se ci fosse stato un acquirente finale diverso.
Se Israele sia l’acquirente finale o se lavori una parte di greggio per rispedirlo in Turchia, se esista un accordo permanente oppure si tratti singoli accordi di vendita, poco importa qui; il pagamento del greggio scaricato ad Ashkelon il 20 giugno è stato effettuato in una banca turca.
La segretezza sulla vendita di greggio curdo a Israele è stata a lungo rispettata – per volontà turca – e non israeliana, ma con l’avvicinarsi del giorno dell’indipendenza del Kurdistan, essi mettono da parte la discrezione.
“Siamo felici di avere acquirenti per il petrolio perché vuol dire che il nostro diventa sempre più uno Stato”, hanno affermato da fonti del governo regionale curdo.

 

La forza contrattuale curda oggi è tanto maggiore con la presa di Kirkuk negli scontri tra forze islamiste e militari di Baghdad. Preso il controllo del vitale oleodotto della capitale storica del Kurdistan, il sottosuolo di Kirkuk è anche ricco di un’altra risorsa su cui si punta nel futuro; il gas naturale. Nei prossimi vent’anni, l’Iraq ne diventerà il sesto produttore più grande al mondo.
Per Israele e Turchia, uniti da interessi finanziari, per l’approvvigionamento e la speculazione del petrolio, riflessioni di ordine politico possono aspettare. La Turchia non sembra temere possibili influenze indipendentiste sui curdi turchi, e un’intesa con il Kurdistan iracheno oggi si traduce con la garanzia di una difesa dall’interno contro le forze islamiste. Per Israele, la partnership commerciale con il Kurdistan apre nuovi – o fa ritrovare dei vecchi – sbocchi d’investimento con la Turchia.
La leadership del Kurdistan, mentre si rimette all’alleanza con le due maggiori potenze regionali, Israele e Turchia, fa esercitazione di diplomazia con gli Usa i quali, mentre ambiguamente rilasciano dichiarazioni a favore della tutela dell’unità nazionale irachena, non possono che essere interessati e coinvolti, nell’opzione indipendente curda, soprattutto di fronte alle perdite causate dal mega flop iracheno.

 

Tratto da:http://www.ilfarosulmondo.it

 

 

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