Già Eric Hobsbawn, nella sua intervista sul Secolo Breve, indicava come la faglia nella storia del XXI Secolo sarebbe stata la contrapposizione tra le aree dove esistono gli Stati e quelle dove gli Stati non esistono più. Il mondo infatti si va sempre più definendo non più come diviso tra un primo e un terzo mondo, ma tra Stati forti e “disgreganti” (magari anche con processi inediti come quello che ha portato all’Unione Europea) e Stati “disgregati”.
Gli Stati più forti si integrano fra loro in nuovi blocchi economico/politici mentre quelli più deboli – spesso frutto di una decolonizzazione pilotata proprio dalle ex potenze coloniali – vengono disintegrati in territori senza sovranità,
divisi e contesi da gruppi armati con i quali è possibile negoziare o combattere in condizioni assai più asimmetriche e vantaggiose per le multinazionali e gli stati imperialisti.
L’apparente obiettivo di questo scenario è la scomparsa dello Stato nei paesi in cui la “rivoluzione democratica” è stata imposta con i bombardamenti o con i colpi di stato eterodiretti da Washington, Londra, Riad e talvolta Parigi.
La stabilità destabilizzante realizzata dalle potenze occidentali, in collaborazione con le petromonarchie del Golfo, ha mandato per aria i regimi “laici” in Libia, Iraq, Corno d’Africa e Africa centrale. Ha deposto e ricomposto i regimi “laici” in Tunisia ed Egitto. Di fatto è stato raggiunto l’obiettivo di Usa e Israele di “balcanizzare” l’Iraq in tre cantoni (sunniti/Isis, kurdi al nord, sciiti nel sud). Ha provocato la secessione in Sudan (e prima ancora nei Balcani e nel Caucaso), ha fallito – per ora – li tentativo di disintegrare la Siria ma ha lasciato indenni, se non rafforzato, le monarchie petrolifere del Golfo.
Il segretario di Stato statunitense Kerry ha già indicato come i responsabili di questa destabilizzazione permanente intendano gestire gli effetti della loro azione: bombarderanno dall’alto dei cieli con i loro droni e impediranno di volta in volta che qualcuna delle fazioni armate, sorte nelle terre di nessuno, prevalga sulle altre. Sembra uno scenario da fantascienza (modello Elysium, potremmo dire) ed invece è quanto pianificato, realizzato e previsto dalle grandi potenze per il futuro.
Ora il cerchio di fuoco intorno all’Europa non brucia solo a sud, ma infiamma anche le regioni all’Est. La destabilizzazione e il conflitto in corso in Ucraina stanno esattamente dentro questa logica prettamente imperialista, nel senso più moderno e attuale del termine. L’instabilità infatti non è senza “centri di comando”, ma ne rappresenta una derivazione diretta. In gioco non c’è solo la partita energetica.
L’impero del caos nei paesi esterni e periferici rispetto ai centri imperialisti, consente di giocare a mani libere la partita a scacchi della competizione globale tra i vari poli determinando di volta in volta gli spazi per la concertazione e quelli per il conflitto. La vicenda della competizione energetica, della guerra sulle pipelines e i corridoi strategici (Nabucco versus South Stream ad esempio) è un aspetto rilevante ma non esclusivo di questa fase storica. Alzare continuamente la soglia della tensione rischia di creare uno o più punti di non ritorno, quelli nel quale il rapporto costi/benefici viene sottratto ai “politici” e affidato ai “tecnici”; e in particolari condizioni i tecnici che prendono in mano le decisioni sono i comandi militari. Efficacemente, Mark Twain diceva che è vero che “la storia non si ripete, ma è anche vero che spesso fa rima”.
Nella manifestazione del 28 giugno e nel controsemestre popolare finalmente, dopo anni di rimozione, ci sarà posto anche per il confronto e l’iniziativa sui pericoli di guerra. E’ una parte del ritardo che comincia ad essere recuperato. Prima è, meglio è.
Di Sergio Cararo
Contropiano.org