Ieri era la fine del segreto bancario, oggi la possibilità per gli 007 del Fisco di desumere informazioni sul nostro reddito dall’osservazione dei social network. Il Leviatano sempre più pantagruelico allunga i suoi tentacoli nella vita privata degli italiani, tutto giustificando in nome dell’evasione fiscale. Ma siamo sicuri che l’obiettivo “zero nero” giustifichi il sacrificio della nostra privacy?
Si dice che l’idra di Lerna, il mostro mitologico affrontato da Ercole nella seconda delle Dodici Fatiche, avesse nove teste pronte a ricrescere in numero doppio non appena ne fosse stata mozzata una.
Difficile non pensare alla belva del mito quando si scopre che il Fisco italiano ha non nove ma ben dodici teste (anch’esse pronte a ricrescere a gran velocità quando, per caso, qualcuna ne venisse “spuntata”). Poco più di un mese fa, la Cgia di Mestre ha elencato ben dodici provvedimenti che “tolgono ogni alibi al fisco”. Dodici frecce alla faretra dello Stato che consentono al Leviatano di “contrastare e ridurre l’evasione fiscale a dimensioni più accettabili”. Con l’entrata in vigore dell’Anagrafe fiscale, lo Stato potrà contare su: abolizione del segreto bancario; studi di settore; blitz contro la mancata emissione di scontrini e ricevute; redditometro; spesometro; 117 (il numero di pubblica utilità della Guardia di Finanza); Serpico (super cervellone che registra decine di migliaia di informazioni al secondo per mettere a confronto dichiarazioni dei redditi, polizze assicurative, informazioni del catasto, del demanio, della motorizzazione, etc.); metodologie di controllo delle Pmi e dei lavoratori autonomi; limite all’utilizzo dei contanti fino a 3.000 euro; utilizzo del Pos per le transazioni commerciali; fattura elettronica; reverse charge.
La disponibilità di informazioni che potrà vantare il Fisco, inoltre, probabilmente non ha precedenti. Dati su conti correnti, carte di credito, di debito e prepagate. E ancora, informazioni sul contenuto delle cassette di sicurezza, sui prodotti finanziari, case e terreni, automobili, imbarcazioni e beni di lusso. Un’enorme mole di dati: oltre cinquecento milioni.
A tanto arriva infatti la banca dati su cui potrà contare il Fisco (e quindi lo Stato) italiano: la famigerata Anagrafe tributaria. Dal 31 marzo, infatti, gli istituti di credito hanno dovuto all’Anagrafe tutti i dati relativi al 2015 da incrociare con le dichiarazioni dei redditi per potenziare ulteriormente la lotta all’evasione fiscale.
Ma cosa si nasconde dietro questo intento in apparenza lodevole? A partire dal 2011, negli anni scorsi l’Agenzia delle Entrate ha raccolto sempre più dati fiscali di milioni di italiani, per tracciare il profilo di sedicenti “potenziali evasori”, sulla base del (discutibile) principio che chi non ha nulla da nascondere non ha motivi per difendere la propria privacy. A partire da quella fiscale.
Chiunque abbia sottoscritto una polizza assicurativa, acquistato o venduto un prodotto finanziario, usufruito di un servizio finirà sotto la lente d’ingrandimento del Leviatano, in una sorta di edizione fiscale del Grande Fratello che ha allarmato il Garante della Privacy, costretto a chiedere chiarimenti per lettera al direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi e al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Mentre Equitalia querela un disoccupato emiliano che l’aveva accusata di istigazione al suicidio con un video su YouTube, i funzionari pubblici del Fisco verranno a sapere quanto spendiamo ogni mese e quanto spendiamo all’inizio e alla fine dell’anno.
E lo fanno con ogni mezzo, ortodosso ed eterodosso. Per combattere l’evasione, il Fisco si potrà avvalere anche delle informazioni desunte dai profili personali dei contribuenti sui social network. In parole povere, i funzionari dell’Agenzia delle Entrate potranno spulciare le foto delle vacanze deducendone il tenore di vita e quindi eventuali violazioni in sede di dichiarazioni dei redditi. Un criterio assai ambiguo, considerando che spesso sui social network vi sono altre persone che pubblicano informazioni, vere e fittizie, sulle nostre vite quotidiane. Se si calcola che gli italiani con un profilo Facebook attivo sono almeno 25 milioni, su una popolazione di sessanta (per circa quaranta milioni di contribuenti), è chiaro l’impatto devastante che l’osservazione dal buco dello spioncino di internet può avere. Inimmaginabili, poi, tempi e costi degli accertamenti che ne deriverebbero.
Come scriveva su Panorama Stefano Caviglia già a giugno dello scorso anno a proposito della fine sulla protezione della giacenza media dei conti correnti bancari, qui si inverte l’onere della prova. Quelle implicate dal nuovo Fisco sono norme che impongono al contribuente-imprenditore di dichiarare come tassabili i prelievi che non sa giustificare. Con il risultato che non sarà più il Fisco a dover dimostrare l’evasione, ma il cittadino a dover provare di non aver evaso. Una sovversione dei principi più basilari di tutta la giurisprudenza moderna.
“Ammesso pure che sia utile per contrastare gli abusi nelle prestazioni agevolate – scriveva già a giugno dell’anno scorso Caviglia – per il resto la novità è esattamente quella che sembra: una nuova e più potente arma da usare nella caccia agli evasori, naturalmente scrutando liberamente anche nei conti di chi non ha mai evaso neppure un euro.”
Ieri nei conti, oggi nel profilo Facebook, domani chissà dove. All’appello manca solo la censura della corrispondenza privata. Poi saremo pronti per una nuova edizione de “Le vite degli altri”, questa volta in salsa fiscale.
Fonte: Capire davvero la crisi