Di Clarissa Gigante
Campare con 485 euro al mese? Chiunque direbbe che è al limite dell’impossibile, specie se si hanno affitto e bollette da pagare.
E invece per i tecnici di Commissione europea, Bce e Fmi – che probabilmente non hanno idea del costo della vita – è fin troppo, specialmente se viene percepito dai più giovani.
La cosiddetta Troika, che è in Portogallo per una nuova ispezione, vorrebbe partire contestando il salario minimo che equivale – appunto – ad appena 485 euro al mese. Secondo le anticipazioni di stampa i tecnici faranno leva su una riduzione delle buste paga per cercare di ridurre la disoccupazione, salita al 15,6%.
Difficile che ad accogliere gli ispettori ci siano folle festanti, però. Da quando il Parlamento ha varato il nuovo piano di austerity, il Paese è in preda a proteste e scioperi e le decisioni della Troika ormai sono contestate da tutti. “Non è diminuendo i salari che si farà ripartire l’economia”, ha affermato Antonio Saravia, presidente dell’equivalente portoghese di Confindustria. “Una politica di salari bassi è inaccettabile”, tuonano i sindacati, “Speriamo che il governo tenga duro su questo punto”.
Insorge persino il ministro delle Finanze, Maria Luis de Albuquerque, secondo cui i salari in Portogallo sono già calati a sufficienza nel settore privato: “Su questo punto abbiamo una divergenza di vedute con il Fondo monetario internazionale”, ha detto. Probabile quindi che su questo punto il governo batta i pugni sul tavolo, specie dopo aver varato una manovra da 3,9 miliardi che prevede tra le altre cose il taglio del 10% delle pensioni dei funzionari pubblici e il licenziamento volontario (in cambio di un indennizzo) di oltre 3mila funzionari. Il numero è inferiore rispetto a quanto previsto inizialmente dal governo, dai 5.000 ai 15.000. Finora Lisbona ha ottenuto un piano di aiuti da 71,4 miliardi di euro totali e dopo l’ispezione potrebbe ricevere una tranche 2,7 miliardi.
Informazione consapevole
Di Susanna Picone
L’Islanda cancellerà a 100mila dei suoi cittadini, cioè un terzo della popolazione, 24mila euro dal mutuo per la casa. Un bel regalo per gli islandesi che era stato promesso durante la campagna elettorale. Era stato il Progressive Party, capofila della coalizione di centro-destra, ad aver fatto questa promessa che ora si appresta a mantenere. È stato infatti introdotto un piano per la riduzione dei mutui legati all’inflazione di circa 900milioni di euro (150 miliardi di corone). Si tratta di un rimborso interpretato come un risarcimento dopo che la svalutazione della corona aveva fatto alzare i prezzi e le rate dei mutui. A pagare dunque non saranno i contribuenti ma la finanza. Ma se questo regalo non può che far festeggiare i cittadini in Islanda non è stato allo stesso tempo ben visto sia dal Fondo Monetario Internazionale che da Standard & Poor’s. S&P e il Fmi infuriati –Secondo l’istituto di Washington la ripresa economica nell’isola è ancora debole e non è possibile regalare nulla ai contribuenti, mentre l’agenzia di rating ha minacciato di abbassare il giudizio del Paese. Ma nonostante ciò il Primo Ministro Sigmind Gunnlaugsson non sembra preoccuparsi: ha affermato, infatti, che è iniziato il vero rinascimento economico dell’isola, dopo il default del 2008. Secondo lui l’impatto sui conti nel prossimo triennio sarà minimo. Oltre ad alleggerire i mutui dei cittadini il Governo ha anche varato un piano che prevede agevolazioni fiscali per incoraggiare gli islandesi ad utilizzare i loro fondi pensionistici per azzerare il debito
Infiltrato
visto su Informazione Consapevole
La Repubblica Ceca si prepara a indire un referendum sull’uscita dall’Unione Europea.
Dopo il duro colpo assestato dal Presidente Viktor Janukovyc all’ingordigia della cricca usurocratico-bancaria di Bruxelles, che ha sperato fino all’ultimo, al vertice di Vilnius sul partenariato orientale, di mettere definitivamente le sue mani sull’Ukraina, e dopo le prove di forza del Premier ungherese Viktor Orban che, liberatosi dal cappio del Fondo Monetario Internazionale, sta conducendo il suo Paese sulla via di una straordinaria ripresa economica, un’altro spettro non fa dormire sonni tranquilli ai burattinai della BCE.
Non mi riferisco ai malumori e ai ripensamenti della Croazia, che, tirata per il bavero dentro l’Unione Europea, sta già pensando dopo pochi mesi di tornare saggiamente sui suoi passi. Questa questione, per quanto potenzialmente esplosiva, deve ancora maturare.
E non mi riferisco neanche alle forti dichiarazioni dell’alto prelato ortodosso Vsevolod Chaplin, responsabile delle relazioni con la società del Patriarcato di Mosca, che, ponendo l’accento sui comuni legami di identità, ha affermato che: «Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldova, Grecia, Serbia e Bulgaria, paesi che rappresentano la cultura più potente, possono permettersi di chiedere un rinnovamento da zero delle istituzioni europee, cambiandone le caratteristiche, tipiche dell’Europa occidentale».
Mi riferisco invece a quello che, per i tecnocrati della UE, potrebbe essere un incubo di gran lunga peggiore. Un incubo che si chiama Praga.
La Repubblica Ceca, nata nel 1993 dalla pacifica dissoluzione della Cecoslovacchia della Guerra Fredda, un po’ a causa di oltre quarant’anni di “socialismo reale” vissuto sulla propria pelle, e un po’ sulla scia del sincero europeismo del suo primo Presidente, il drammaturgo Vaclav Havel, avviò fin da subito le trattative per l’adesione all’Unione Europea, entrandovi a pieno titolo il 1° Maggio del 2004. Fu un referendum che ancora oggi fa discutere a sancire questo “matrimonio”. Dei circa 55,21% degli aventi diritto di voto che effettivamente vi hanno partecipato, si espressero per l’adesione circa il 77,33%, pari al 42,7% circa di tutti gli aventi diritto al voto. Meno quindi della metà dei Cechi. E sarà probabilmente un altro referendum a sancire un divorzio che da tempo è nell’aria e del quale a Bruxelles si sussurra nei corridoi con timore e con apprensione.
I rapporti fra Praga e Bruxelles, dal 2004 ad oggi, sono sempre stati altalenanti e la crisi economica degli ultimi anni non li ha certo favoriti. I Cechi si sono guardati bene, infatti, dal rinunciare alla loro sovranità monetaria per entrare a scatola chiusa nel circuito dell’Euro, mantenendo con orgoglio la loro Corona. Al cambio attuale occorrono circa 27 Corone per fare 1 Euro.
Il secondo Presidente della Repubblica Ceca, Vaklav Klaus, in carica fino al 7 Marzo di quest’anno, specializzatosi fra l’altro a Napoli nel 1966 dopo una laurea in Economia all’Università di Praga nel 1963, è sempre stato un euroscettico di ferro. Appena insediatosi alla Presidenza, nel 2003, si oppose fermamente all’ingresso del suo Paese nell’Unione Europea, invitando i suoi concittadini a votare no al referendum per l’adesione ai trattati europei. Inoltre, Klaus è stato un serio ostacolo alla ratifica del famigerato Trattato di Lisbona. Dopo la vittoria del ‘no’ nel primo referendum irlandese, definendo il Trattato “morto”, fu l’unico Capo di Stato dei Paesi dell’Unione Europea a chiedere subito l’abbandono del testo.
Successivamente all’approvazione del Trattato da parte del Parlamento nazionale, Klaus ha continuato la sua politica oltranzista, presentando attraverso un gruppo di senatori del suo partito un nuovo ricorso alla Corte Costituzionale con l’obiettivo non dichiarato di prendere tempo per offrire la sponda al leader del Partito Conservatore Britannico David Cameron, che nel Regno Unito ha poi vinto le elezioni nel 2010.Cameron aveva infatti più volte fatto sapere in quel periodo che, se si fosse arrivati a tale data senza il Trattato in vigore, avrebbe promosso un referendum su di esso, nel quale la vittoria dei ‘no’ sarebbe stata estremamente probabile. In seguito alla sopravvenuta ratifica dell’Irlanda e alle conseguenti forti pressioni di Bruxelles su di lui per convincerlo a promulgare il Trattato (pressioni volte a scongiurare l’ipotesi di cui sopra), e considerando scontato il rigetto della sua istanza presso l’Alta Corte, ilPresidente ceco iniziò a negoziare la propria firma con l’Unione Europea, ottenendo in questo modo un opt-out sulla Carta dei Diritti Fondamentali nel Consiglio Europeo di fine Ottobre 2009. Questa concessione, assieme al pronunciamento della Corte Costituzionale che il 3 Novembre 2009 ha ribadito per la seconda volta che il Trattato di Lisbona era “conforme alla Costituzione della Repubblica Ceca” (sentenza immediatamente seguita dalle rivelazioni del quotidiano britannico Times secondo le quali David Cameron aveva rinunciato ufficialmente alla possibilità di tenere il referendum sul Trattato non appena insediato come Primo Ministro), convinse definitivamente Klaus che, poche ore dopo il verdetto della Corte di Brno, promulgò così, sebbene a malincuore, la ratifica del Trattato, poi depositata presso il Governo italiano.
Con la fine della Presidenza Klaus i fermenti antieuropeisti sono in netta ripresa e da più parti si chiede a gran voce l’abbandono di una nave che si ritiene destinata ad affondare.
La proposta di un referendum è sostenuta con forza da Miloslav Bednar, Vicepresidente del Partito dei Cittadini Liberi, formazione extra-parlamentare che cerca di creare consensi attorno alla stessa idea che tanto fa discutere, e forse affascina, i britannici: “Riconsiderare l’adesione all’Ue”, come spiegato dallo stesso Bednar. A tal proposito, sostiene il politico ceco “andrebbe indetto un referendum su una possibile uscita”.
Il Partito dei Cittadini Liberi critica molto duramente “la governance dirigista” dell’Unione Europea nonché le politiche recessive e di austerità da questa adottate, e vorrebbe richiamare l’attenzione sulla “insostenibilità” di questa Europa. Nonostante che alle ultime elezioni politiche abbia raccolto soltanto il 2,4% dei voti, non riuscendo ad entrare in Parlamento, gli ultimi sondaggi lo danno in forte ripresa, e il Partito dei Cittadini Liberi potrebbe quindi rivelarsi una sorpresa alle prossime elezioni europee, quando anche i Cechi saranno chiamati a votare per il nuovo Parlamento Europeo e per il rinnovo della Commissione.
Un’uscita della Repubblica Ceca dall’Unione Europea garantirebbe a Praga senz’altro il sostegno dell’Ungheria di Orban e di altre nazioni tradizionalmente euroscettiche, o comunque stanche delle vessazioni di Bruxelles e di Berlino, e produrrebbe una reazione a catena che potrebbe destabilizzare questa Europa delle banche facendola crollare inesorabilmente.
Forse la nuova Europa dei Popoli che potrebbe nascere da queste macerie avrà inizio proprio da Praga.
Nicola Bizzi
Signoraggio
«Chi negli anni a venire porterà sulle spalle il peso dei disastri che questo sistema sta producendo – aggiunge Anna Lami nel suo reportage su “Megachip” – attualmente guarda ai 5 Stelle con speranza». E il V-Day di Genova segna un salto significativo nel profilo politico del movimento grillino: si riducono i meri attacchi alla casta politica e crescono quelli all’Europa dell’austerità e dell’euro. «Si tenta anche di delineare i primi tratti che dovrebbero caratterizzare in positivo la società del futuro (citati gli esempi di Correa, Morales e Maduro), in maniera a tratti confusa, ma indice di un significativo progresso che, probabilmente, Grillo e Casaleggio intendono innestare nella coscienza del “loro” popolo». Parole dirette, emergenze stringenti: povertà («ci sono 8 milioni di poveri, non possiamo continuare a far finta che non esistano»), precarietà occupazionale («c’è troppa gente costretta ad accettare qualsiasi ricatto per sopravvivere»), allargamento del divario tra ricchi e poveri. Napolitano? Merita l’impeachment: «Rimarrai solo», tuona Grillo, rivolto all’uomo del Colle. «La tradirai da solo, l’Italia».
“Oltre”, la parola chiave del meeting, è soprattutto «andare oltre il concetto di quest’Europa , a cui non credono più neanche i bambini». In sette punti, ecco delineata la politica estera europea del “populista arrabbiato”. Innanzitutto un referendum sull’euro: «Siamo stati truffati quando siamo entrati, e ora ci troviamo a competere in un mercato schizofrenico». Deve pur esserci un piano-B, perché di questo passo c’è solo il collasso dell’Italia. Gli eurobond, per imporre alla Bce di sostenere i debiti sovrani? «Non li accetteranno mai, ma li chiederemo lo stesso».
Come? Stringendo un’alleanza coi paesi mediterranei: «Non dobbiamo parlare con la Merkel, ma con i paesi simili a noi, con problemi simili ai nostri». Cioè Francia, Spagna, Grecia, Portogallo. «Gli economisti mi criticheranno? Sono loro la rovina di questo paese, in cinquant’anni non ne hanno azzeccata una». Il resto sono conseguenze, ben esplicitate. Come il no al pareggio di bilancio: «Vedremo noi se e come sforare, e non per diritto costituzionale. Abbiamo perso la sovranità monetaria, quella economica, quella dei nostri figli». Idem per il Fiscal Compact, da abolire: «Non possiamo accettare un contratto per il quale dovremo tagliare 50 miliardi l’anno per vent’anni». Ai giovani, protagonisti della piazza, un’esortazione forte: «Non dovete emigrare, dovete cospirare!».
Libre Idee
Bucarest allo scontro con il Fmi: non alza le accise sulla benzina