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di Giovanni Arena

L’unione monetaria europea non è bastata. Il susseguirsi di governi tecnici, capitanati da vassalli della tecnocrazia, non è bastato. L’agenda politica e amministrativa imposta dalle segreterie della BCE non è stata sufficiente. Era necessaria un’ulteriore manovra per strappare ad una Nazione, da tempo priva di autonomia e democrazia, gli ultimi istanti di sovranità nazionale. E così è stato fatto. Il 24 gennaio, il governo ha ottenuto alla Camera il via libera al provvedimento che prevede una rivalutazione del capitale della Banca d’Italia tramite decreto, e non sulla base di uno studio né a seguito di calcoli accertati, il quale sancisce il passaggio da una valutazione complessiva di 156mila euro a quella nuova di 7,5 miliardi di euro.

Le quote finanziarie di partecipazione al suo capitale sociale sono per il 94,33% di proprietà di banche e assicurazioni private, per il 5,66% di enti pubblici (INPS e INAIL). Per la precisione, più del 64% del capitale è in mano a Banca Intesa e ad Unicredit. Questo decreto, che dovrà essere definitivamente approvato in Senato entro il 29 gennaio, non solo garantisce alle sopracitate banche un guadagno compreso fra i 2,7 e i 4 miliardi di euro, ma di fatto trasforma la Banca Centrale d’Italia in una vera e propria “public company”. Gli emendamenti del decreto prevedono infatti la possibilità, da parte degli azionisti minori e dei colossi finanziari, di acquistare fino al 3% (anche se c’è chi auspica di arrivare al 5%) della nostra Banca Centrale.

 

Questo provvedimento possiede una triplice valenza: Prima di tutto garantisce ad Intesa ed Unicredit una rivalutazione delle proprie quote, che verrano poi lanciate nel mercato finanziario. In secondo luogo, lo Stato placa la fame delle banche, che detengono più del 50% del debito pubblico italiano. Infine contribuisce al processo di disintegrazione della Sovranità nazionale e di tutte le colonne rimaste a sostenere questo principio. Con le nuove regole stabilite dal decreto, gli stessi azionisti della Banca d’Italia incasseranno circa il sestuplo degli utili incassati negli ultimi quattro anni. Il risultato? Una perdita di circa 400 milioni ai danni Stato. Stato che ancora una volta dovrà bussare alle porte dei cittadini e riscuotere il necessario per far fronte alle perdite causate da questo regalo alle banche private. Misura di precauzione che, guarda caso, è stata presa proprio il 24 gennaio: l’approvazione della data di scadenza della mini Imu.

fonte: L’Intellettuale Dissidente

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