di Adriana Bernardotti (Buenos Aires)
Lunedì scorso sono scaduti i termini e l’Argentina ha imboccato la strada del default tecnico. Il paese ha 30 giorni di tempo per trovare una soluzione “magica” affinché i fondi ormai depositati nella Bank of New York arrivino ai destinatari legittimi: i creditori che hanno aderito alla ristrutturazione dei tango-bond della crisi 2001. Altrimenti, non soltanto l’Argentina precipiterà, ma si vanifica qualsiasi operazione presente o futura di ristrutturazione dei debiti sovrani nel mondo. Tuttavia La Task Force Argentina in Italia – e le banche italiane che l’hanno fatto nascere – si leccano i baffi…
Grazie ad una sentenza locale del Giudice Thomas Griesa del Tribunale del distretto Sur di New York a favore del 1,6% degli obbligazionisti, rimangono in attesa anche il 92,4% dei creditori che hanno aderito alla politica di ristrutturazione del debito argentino. I vincitori sono fondi avvoltoi come il NML di Paul Singer e altri similari, la cui specialità è acquistare titoli in default o di paesi in crisi per farsi poi riconoscere il valore totale, più gli interessi, per opera di giudici permeabili e con l’aiuto della loro capacità di lobbing nel Congresso e nei media degli Stati Uniti.
Gli antecedenti di Paul Singer sono conosciuti anche in Italia, perchè ha partecipato in passato nella ristrutturazione di Telecom Italia. Tra altre cose, è il principale finanziatore del Partito Repubblicano e il fondatore della Task Force Argentina, l’organizzazione che riunisce i vari fondi negli USA, presieduta però dal democratico Robert Shapiro, consigliere di Obama ed ex funzionario del governo Clinton. L’Argentina dovrà pagare adesso 1.330 milioni di dollari, il che rappresenta per gli avvoltoi un guadagno pari al 1600% in solo 6 anni.
“L’Argentina vuole continuare a pagare il debito e non la lasciano fare”, recitava il titolo dell’inserzione a pagamento firmata da Cristina Kirchner pubblicata sul Wall Street Journal giorni fa, allo scopo di spiegare al mondo delle finanze la posizione del paese in queste giornate di difficili negoziazioni a New York.
Il Governo argentino si trova davanti a una situazione paradossale. Se paga subito gli avvoltoi, come pretende il giudice di New York per sbloccare i fondi che consentirebbero di liquidare la stragrande maggioranza degli obbligazionisti, eviterebbe un assurdo default tecnico. Tuttavia, facendo ciò, avrebbero uguale diritto al 100% del valore dei vecchi titoli, il resto dei holdout o obbligazionisti che non hanno partecipato alla ristrutturazione (7,6% dei creditori) – secondo lo stesso principio di pari passu o parità di trattamento applicato abusivamente dal giudice Griesa – : l’impegno economico per Argentina salirebbe allora a 15 miliardi di dollari, la metà delle attuali riserve della Banca Centrale. Immediatamente, o almeno entro il 31 dicembre, anche gli investitori che hanno aderito allo scambio di titoli, sacrificando più del 60% dei loro guadagni, potrebbero tornare indietro, invocando la clausola che scade in quella data e vieta al Governo di offrire condizioni maggiormente vantaggiose a obbligazionisti che non abbiano partecipano alla ristrutturazione. La somma che dovrebbe corrispondere in quel caso l’Argentina salirebbe ai 120 miliardi: il default sarebbe in quel momento sostanziale, non soltanto tecnico.
L’Argentina, nonostante i successi raggiunti per gestire una politica di ristrutturazione del debito in autonomia dal FMI e dalle altre organizzazioni del potere finanziario mondiale, ha dovuto sottostare alla norma sulla giurisdizione estera dei titoli di Stato, che costituisce il peccato originale dell’inghippo al quale assistiamo in questi giorni. Questo spiega la competenza della giustizia degli Stati Uniti in caso di controversie, così come il ruolo del Bank of New York come agente pagatore.
L’extraterritorialità giuridica, che è stata assunta dal Governo senza discussioni per i titoli consegnati nelle due Offerte pubbliche di scambio (Ops) del 2005 e 2010, è una clausola nata negli scorsi decenni comepegno richiesto ai paesi deboli da parte dei grandi capitali che “generosamente” offrivano a loro prestiti. Rappresenta la fase conclusiva del ciclo del debito in America Latina, alimentato a metà degli anni ’70 con il riciclaggio di petrodollari da parte delle grandi banche internazionali e che dopo, nella fase di crack economico e crisi dei debiti sovrani negli anni ’80, le stesse banche (Citi, Chase, JP Morgan, Deutsche) convertono in bond che vendono ai loro clienti e a grandi fondi d’investimento, imponendo la giurisprudenza straniera ai paesi costretti a rifinanziare il debito, come garanzia per un eventuale default. Così i paesi debitori accettano questo strappo di sovranità, al momento che i loro obblighi di pagamento passano da un gruppo di banche internazionali a migliaia d’investitori che hanno acquistato i titoli.
Questa è la storia dietro il default argentino del 2002, superiore ai 100 miliari di dollari e il più grande della storia finanziaria mondiale fino al crack della Grecia. E’ stato la logica conclusione di decenni di sovraindebitamento e bassa crescita, che avevano lasciato il paese con un debito superiore al 160% del PIL (l’italiano è oggi al 135%), un tasso di disoccupazione vicino al 25% e oltre il 50% della popolazione in condizioni di povertà.
La nuova scossa sul futuro economico argentino arriva proprio quando il paese discolo del FMI stava cercando di riportare le carte in regole, per accedere finalmente ai capitali e investimenti che il sistema finanziario mondiale frena e che sono indispensabili per rendere dinamica un’economia che mostra difficoltà.
La rottura con il FMI e gli organismi internazionali di credito, ricordiamo, ha origine nel rifiuto del Governo di accettare la partecipazione del FMI nel processo di ristrutturazione del debito. Una bandiera del kirchnerismo è stata la politica di sdebitamento, nel 2006, cioè l’azione unilaterale del Governo di saldare il debito con il FMI mediante l’esborso di divise (9.500 milioni di dollari) e senza accettare nuovi finanziamenti, allo scopo di impedire nuovi interventi delle istituzioni finanziarie internazionali negli affari interni argentini.
Oggi, tuttavia, occorrono capitali e temperare i toni critici. Appena un mese fa, il ministro delle Finanze è riuscito a firmare un accordo con il Club di Parigi, che salda il debito con gli Stati creditori (tra cui l’Italia) mediante il pagamento di circa 10.000 milioni di euro alle condizioni richieste dall’Argentina: versamenti dilazionati in sette anni e senza interventi di auditing da parte del FMI.
Altri risultati di questa politica sono l’intesa con la multinazionale spagnola REPSOL che ha messo fine alla disputa sulla ri-nazionalizzazione dell’azienda petrolifera di bandiera YPF. O i discreti avvicinamenti al FMI, sempre alla ricerca di offrire segnali positivi ai mercati, quando riconosce la competenza del tribunale arbitrale ICSID-CIADI per chiudere cause aperte dalle multinazionali, o quando accetta la cooperazione tecnica dell’ente per correggere e sostituire gli indicatori statistici su inflazione e crescita per altri maggiormente affidabili e trasparenti.
La causa argentina raccoglie in queste settimane numerosi consensi internazionali. Esprimono comunicati di solidarietà i principali fori internazionali, come l’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo), l’Assemblea del G77+Cina, l’OSA, ilMercosur. Appoggiano in forme diverse gli ambasciatori europei a Buenos Aires, l’agenzia di compensazione europea Euroclear e perfino il Governo Obama, tutti consapevoli dell’ impedimento che crea questo intervento di un tribunale locale USA sui processi di ristrutturazione dei debiti sovrani degli Stati. Censurano in forma netta le fondamenta della sentenza, i Nobel dell’Economia, le voci autorizzati dalle finanze, gli esperti in materia giuridica internazionale, i principali analisti economici del Financial Times e del Foreign Affairs.
In questo coro di critiche, spicca la voce discordante di Nicola Stock, leader della Task Force Argentina (Tfa), l’organizzazione nata per rappresentare gli interessi degli investitori italiani vittima del default argentino, che è in realtà una creazione dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana), cioè l’organizzazione di categoria della banca italiana.
“La decisione con cui la Corte suprema Usa ha bocciato l’appello di Buenos Aires contro gli hedge fund che hanno respinto l’offerta di ristrutturazione del debito costituisce un precedente positivo per i creditori in titoli argentini”, segnala Stock da Washington, pensando agli obbligazionisti che aderiscono ancora alla Tfa e che, grazie all’antecedente della sentenza di New York, possono aspettarsi nei prossimi giorni un giudizio favorevole sulla domanda presentata nel 2006 davanti al tribunale arbitrale ICSID della Banca Mondiale.
Secondo il giornale argentino filogovernativo Pagina12, la causa sostenuta dalla Tfa è piena d’inconsistenze e irregolarità giuridiche. A cominciare del numero di obbligazionisti, che dagli originali 168mila sono passati a meno di 50mila al momento di dover presentare la documentazione probatoria dello status di creditore. Non è chiaro nemmeno il valore o il possesso effettivo dei titoli che dovrebbero sostenere la pretesa di pagamento, né è giustificato il motivo per cui la domanda è stata depositata presso ICSID e non davanti a un tribunale giudiziario. “La rinuncia alla sovranità e il riconoscimento di una giurisdizione straniera, stabilito nel contratto d’emissione dei titoli (obbligazioni in default), si riferisce sempre ai tribunali, mai ad un tribunale arbitrale come l’Icsid, sotto l’ambito della Banca Mondiale“, segnalano i giuristi che hanno studiato il caso.
Il verdetto – fa capire il giornale – molto probabilmente favorirà gli italiani, per la manifesta ostilità da parte del tribunale contro la posizione argentina, come si evince dalla testimonianza dell’arbitro di parte nominato dall’Argentina (il giurista egiziano Abi Saab) che ha rinunciato per questa ragione. Comunque, la sentenza dell’Icsid non avrà nessun effetto fino che non è convalidata da un giudice e, sempre secondo il giornale argentino, diversi giuristi internazionali convengono che la presentazione di Stock e la Task Force davanti l’ICSID mostra tali scorrettezze e imprecisioni, che rendono impraticabile la sua ratifica da parte del sistema giudiziario.
Il lobbista Nicola Stock, sempre molto disposto ad apparire sui media, è comunque molto fiducioso. “Se vinciamo l’arbitrato, potremo eseguirlo nei 102 paesi che fanno parte dell’ICSID. Non lo faremo di certo in Argentina, perché lì tutte le sentenze sono avverse ai creditori”, diceva dopo aver dichiarato davanti gli arbitri e prima di tornare a Roma, molto dispiaciuto per l’eliminazione d’Italia dal Mondiale.
E’utile ricordare alcuni antecedenti della negoziazione con i cosiddetti tango-bond italiani e degli interventi della Tfa: una situazione intricata, nella quale dietro una maggioranza di vittime si nascondono i propri carnefici.
In occasione della prima Ops convocata dall’Argentina, nell’anno 2005, la Tfa allestì una durissima campagna per sconsigliare l’adesione e le hanno fatto eco le associazioni di consumatori (Federconsumatori, Adiconsum, Altroconsumo, ecc), con il risultato che l’Italia è stato l’unico paese al mondo dove la ristrutturazione argentina non ha avuto consenso.
L’Argentina, per rafforzare la sua politica di ristrutturazione, aveva votato in Parlamento di non riaprire ulteriori swap di titoli, ma considerando la dimensione degli investitori italiani (circa 450.000, con 14 miliardi di dollari), questo fallimento costituiva un grosso ostacolo nei rapporti diplomatici tra i due paesi. La riapertura del secondo swap del 2010 è stata in gran parte una concessione agli italiani: questa volta, lasciati espressamente in libertà di decidere da parte della Task Force, e comprovati i risultati positivi sul mercato dei titoli prima rifiutati, il 75% degli investitori ha optato per non perdere più tempo e aderire alla ristrutturazione.
Hanno aderito soprattutto i piccoli risparmiatori, che non potevano aspettare i tempi lunghi delle cause internazionale che promette la Task Force e Stock. Molti però avevano già venduto i loro titoli a prezzi stracciati ai grandi investitori che controllano la Tfa. Per altri più fortunati o meglio informati, diventava invece ormai chiaro il ruolo giocato dalle banche italiane in questa storia e quindi delle sue diramazioni come la Task Force. Migliaia di titoli istituzionali del debito erano stati scaricati dalle banche ai piccoli risparmiatori poco prima del default, quando ormai era evidente il destino dell’Argentina. Non a caso, il requisito che impone N. Stock per aderire alla Tfa, è la rinuncia preventiva all’azione contro la banca venditrice dei titoli-spazzatura. Comunque, tante singole cause sono riuscite ad avanzare nei tribunali italiani e ad ottenere risposte favorevoli, che hanno condannato il collocatore (le banche) a risarcire il valore delle obbligazioni, più interessi e danni subiti.
E’ certamente possibile che la Tfa riesca a trovare da qualche parte qualche giudice come Griesa. Il giornale Pagina12 ha denominato gli italiani della Tfa “Avvoltoi a basso volo” e riporta dichiarazioni di uno dei giuristi italiani a carico d’azioni legali dei pregiudicati dei tango-bond contro le banche italiane: “La domanda nel tribunale ICSID contro l’Argentina è soltanto una formula per evitare la propria responsabilità davanti ai loro clienti, che potrebbero agire in giudizio contro le banche per frode o malafede“.