Quando il governo ricomincia a parlare di ipotetiche riduzioni di tasse future, è meglio ristabilire qualche punto fermo. Ecco gli ultimi dati ufficiali sulla pressione tributaria nel nostro paese. E un utile confronto con gli altri paesi europei non solo sui decimali di imposte in più o in meno, ma sulla “libertà fiscale” che è stata tolta ai contribuenti italiani. L’esempio svizzero e quello svedese come pietra di paragone. 

“La diminuzione della tasse è e rimane uno dei pilastri politica governo. La tempistica è quella nota, non bisogna affrettare i tempi”, ha detto in queste ore il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, rispondendo ai giornali che avevano parlato di un possibile anticipo al 2017 del taglio dell’Irpef (previsto nel 2018). Davvero il nostro paese si può permettere di attendere? Secondo molti studi, la risposta è “no”. Il nostro paese, negli anni, è diventato un vero e proprio inferno fiscale – sostiene un recente studio del pensatoio Impresa Lavoro – distante dai paesi più liberi in Europa come la Svizzera e non solo

Iniziamo dai numeri ufficiali. Nel 2015, secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, “la pressione fiscale è scesa appena, di un decimo di pil, collocandosi al 43,5 per cento del prodotto”. Lo stesso Ufficio parlamentare prevede che “la pressione fiscale si riduce dal 43,5 per cento del 2015 al 42,8 per cento nel 2016; dopo un ulteriore calo di 0,1 punti nel 2017, si stabilizza nel biennio finale di previsione al 42,9 per cento”. Ecco perché: “La pressione tributaria si riduce di mezzo punto di pil nel 2016, prevalentemente per il ridimensionamento delle imposte indirette indotto soprattutto dagli interventi delle leggi di stabilità per il 2015 e per il 2016, tra cui la piena deducibilità del costo del lavoro dalla base imponibile IRAP, l’eliminazione della Tasi per l’abitazione principale e l’esenzione parziale dell’IMU sui terreni agricoli”. L’anno in corso, insomma, dovrebbe essere il primo, dall’inizio della crisi, in cui la pressione fiscale complessiva comincerà a scendere. I problemi qui sono almeno due. Primo, parliamo di una previsione scritta su carta, anche se nel frattempo gli ultimi dati in arrivo dal fronte della riscossione farebbero pensare a tutt’altro che a un alleggerimento . In secondo luogo, anche in base alle previsioni più rosee, la pressione fiscale scenderà in maniera impercettibile. Arrivare al 42,9 per cento di pressione fiscale vuol dire rimanere distanti perfino dal 41,5 per cento di pressione fiscale che si registrava nel 2008, alla vigilia della crisi, quando l’Italia non era certo considerata un Bengodi di tasse e imposte (vedi grafico qui di seguito). Anzi.

Senza titolo1

Sarebbe comunque errato ridurre il problema dell’oppressione fiscale in Italia a una questione di decimali di tasse in più o in meno rispetto a quanta ricchezza produciamo ogni anno. Per esempio il centro studi Impresa Lavoro – nato su iniziativa dell’imprenditore Massimo Blasoni, effettua ricerche e sondaggi su temi che interessano il mondo del lavoro e dell’impresa – ha appena stilato un “Indice della libertà fiscale”, 28 appartenenti all’Unione europea più la Svizzera Il primo posto, quello del paese più libero quando si tratta della gestione dei soldi del contribuente, è proprio la Svizzera. L’ultimo paese in classifica invece, quello meno libero, è l’Italia.

Senza titolo2

Due parole sulla metodologia alla base dello studio. I paesi sono classificati in base a sette indicatori ricavati dai dati ufficiali di Eurostat e Doing Business della Banca Mondiale.

L’Indice della Libertà Fiscale è stato realizzato partendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale: i primi due indicatori, numero di procedure numero di ore necessarie a pagare le tasse (paese migliore. 10 punti per ognuno dei due indicatori). Il terzo indicatore è il Total Tax Rate, cioè la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo stato sotto forma di tasse e contributi sociali (paese migliore 20 punti). Il quarto indicatore, cioè il costo per pagare le tasse, in pratica rappresenta una tassa sulle tasse (paese migliore 10 punti). Il quinto indicatore, la pressione fiscale in percentuale del Prodotto interno lordo, è quello più importante (paese migliore 30 punti). Il sesto indicatore è riferito alla pressione fiscale in percentuale al pil in termini dinamici cioè  quanto il prelievo complessivo è cresciuto dal 2000 ad oggi; mostra la tendenza alla riduzione, o all’aumento, del peso della fiscalità sui (paese migliore 10 punti). Settimo indicatore è la pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo, cioè due genitori che lavorano con due figli a carico (paese migliore 10 punti).

Il Paese migliore in un indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore mentre alle altre economie è attribuito un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal migliore, meno punti riceve. La somma dei singoli indicatori determina, per ogni economia analizzata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100; più alto è il valore ottenuto da uno Stato e più i suoi cittadini sono liberi dal giogo e dall’oppressione fiscale.

Perché l’Italia finisce tra i paesi “fiscalmente oppressi”, con meno di 50 punti in classifica? Nel nostro paese, ogni anno, per pagare le tasse occorrono in media 14 pagamenti diversi contro i 6 della Svezia (prima in classifica in questa voce). Nel nostro paese, il contribuente deve dedicare ogni anno 269 ore a pagare le tasse, contro le 55 ore del Lussemburgo. Nel nostro paese una impresa media restituisce al fisco oltre il 66 per cento dei suoi profitti, contro il 20 per cento della Croazia. Nel nostro paese, piuttosto che alle diminuzioni impercettibili e solo previste della pressione fiscale, faremmo bene a ricordare che la pressione tributaria dal 2000 al 2014 è aumentata di 3,6 punti percentuali, mentre in Svezia nello stesso periodo è diminuita del 5,9 per cento. Ecco quanto ancora pesa lo Stato nella vita dei cittadini e quanto preleva ogni anno dalla loro ricchezza.

Fonte: Capire davvero la crisi

Commenta su Facebook