![]() Aveva arrestato l’allora diciannovenne Luciano Liggio, sorpreso a rubare, che dopo qualche mese si vendicò uccidendolo.
Tratto da: Storia della mafia: dalle origini ai giorni nostri Di Salvatore Lupo Ed. Donzelli […] Alla fine della guerra Leggio “era un giovane contadino, senza beni né risorse”; uno scassapagghiara nel senso letterale del termine, cioè un ladro di covoni di fieno sorpreso nel ’44 dalla guardia campestre Calogero Comajanni e da questi portato attraverso tutto il paese, “quasi a calci”, alla caserma dei carabinieri. Il giovanotto si vendicherà di quest’umiliazione a sei mesi di distanza, con il classico agguato sotto casa. Non è infatti esatto che egli non abbia risorse, anzi è dotato di una naturale abilità nel maneggio delle armi evidenziatasi sin dall’adolescenza, grazie alla quale diventa campiere di un certo dottor Caruso sostituendo il predecessore misteriosamente assassinato (1945). […]
Articolo da La Sicilia del 5 Aprile 2009 Comaianni, un eroe normale La guardia campestre venne uccisa il 28 marzo del 1945. Sei mesi prima aveva arrestato Luciano Liggio, la futura «primula rossa» della mafia e Vito Di Frisco mentre rubavano dei covoni di grano in un campo vicino al paese «Ad ammazzare mio marito è stato Giovanni Pasqua insieme a Luciano Liggio!», disse Maddalena Ribaudo alle forze dell’ordine. E teneva stretti i suoi cinque figli: Carmelo di 22 anni, Emanuele di 19, Marianna di 16, Giuseppa di 13 e Calogero di appena 10 anni. Una vera donna-coraggio, che, insieme a tante altre di cui ci parla la storia, sfata il mito della Sicilia omertosa. Al coraggio di Maddalena, però, non seguì quello dello Stato, che non diede credito alla testimonianza di una vedova e, alla fine del ’49, il procedimento penale si concluse a carico di ignoti. Poi, la svolta. I carabinieri arrestarono Giovanni Pasqua, che confessò il delitto. «Io e Luciano – disse ai carabinieri – abbiamo atteso Comaianni nascosti a pochi passi da casa sua. Appena apparso sulla porta gli abbiamo sparato. Avevamo già provato la sera precedente, rinunciando poi all’ultimo momento. Comunque, è stato Liggio ad insistere per la liquidazione della guardia: gli bruciava ancora la storia della denuncia e voleva assolutamente vendicarsi». Anche Vito Di Frisco, il complice di Liggio nel furto dei covoni di grano, confermò quella versione. «Lucianuzzu non trovava pace e parlava continuamente di vendetta. Giurava e sacramentava che gliel’avrebbe fatta pagare a quei bastardi». Ma la testimonianza della vedova, che, difesa dall’avv. Francesco Taormina, si costituì parte civile, la confessione di Pasqua e le dichiarazioni del Di Frisco non bastarono a far condannare gli assassini. Come da manuale, infatti, Giovanni Pasqua davanti ai giudici ritrattò tutto, sostenendo che la confessione stragiudiziale gli era stata estorta con la violenza dai carabinieri. E la Corte d’Assise di Palermo, con sentenza del 13 ottobre 1955, procedette all’assoluzione per insufficienza di prove sia di Luciano Liggio che di Giovanni Pasqua. Il 18 febbraio 1967, dopo altri 12 anni, la Corte di appello di Bari rigettava l’appello del pubblico ministero e confermava la sentenza di proscioglimento di primo grado. I giudici demolirono le accuse della moglie del Comaianni, perché «non erano coerenti» e costellate da «reticenze, contraddizioni e incertezze».
Articolo da L’Unità del 17 Febbraio 1967 Cominciato a Bari il primo dei 20 processi contro il bandito BARI, 16. Luciano Leggio (piu conosciuto come Liggio), il sicario della mafia, arrestato tre anni fa dopo quasi venti anni di latitanza, è alla resa dei conti. Oggi a Bari, davanti ai giudici della Corte di assise di appello, è cominciato il primo dei venti gravissimi processi che vedono Leggio al banco degli imputati. Qui a Bari l’uccisore di Navarra e Giovanni Russo, è imputato di omicidio aggravato. Con Giovanni Pasqua — dice l’accusa — ha ucciso la guardia campestre Calogero Comaianni. a.p.
Liggio assolto anche in appello! di Italo Palasciano Si è cosi concluso il primo dei venti processi da celebrarsi contro il pericoloso bandito – Anche l’accusa ne aveva chiesto l’assoluzione
Articolo del Corriere della Sera del 16.11.93 Il ” Professore ” del crimine che leggeva Kant di Francesco Merlo Nel 1944 la guardia campestre Calogero Comajanni, che aveva sorpreso il piccolo sgorbio diciannovenne a rubare il fieno, lo trascino’ a calci per tutta Corleone. Ma sei mesi dopo quel ragazzo zoppo lo uccise con un colpo di lupara tra gli occhi. Sin da bambino andava in giro con il torace imprigionato in un busto di legno e di gesso, poi da adulto lo volle in argento. Era gracile, malaticcio, molle e pallido come un cencio. Quando ammazzo’ il giudice Scaglione, per esempio, era quasi paralizzato: dal sedile posteriore dell’ auto prese la mira e sparo’ . E, sempre, il corpo fradicio e incurabile fu per lui una sola, grande piaga. E tuttavia e’ forse qui che stava il suo genio: recitava la parte del subuomo che si prende per un uomo, il vigliacco che si prende per un duro, il tisicuzzo che si prende per un rodomonte, l’ ignorante che fa il professore, attingeva il proprio talento e la propria ferocia dalla propria goffaggine, e poneva la sua grandezza nel fatto di significare che, al di la’ del ridicolo cui si e’ destinati, e’ possibile prendersi, contro ogni smentita, per colui che si sa di non poter essere. Bruciava una campagna e poi si presentava al proprietario: “Non rende, vendetemela”. A vent’ anni era gia’ ricco. In quarta abbandono’ la scuola senza sapere ne’ leggere ne’ scrivere, ma poi costrinse la maestrina di Corleone a dargli lezioni: lei gli leggeva il sillabario e lui le poggiava il fucile sul seno. Volonta’ e legge E addirittura quando, nel 1974, fu arrestato a Milano gli trovarono sul comodino una copia della Critica della Ragion Pratica. Gli avevano spiegato che alla base di quella morale sta la coincidenza tra la Volonta’ e la Legge, ma e’ difficile immaginarlo kantiano, legislatore della citta’ dei fini, “tratta gli uomini come fine e non come mezzo”. E tuttavia, gia’ nel possedere quel libro, ce n’ era abbastanza per convincere i mafiosi a chiamarlo il professore. Percio’ correggeva sfottente gli errori di grammatica al padrino Gaetano Badalamenti, lo zoticone: “Tano, non si dice mi sono mangiato. Forse che ti sei preso a muzzicuni?”. In quasi venti anni di carcere, riusci’ pure a spacciarsi per pittore firmando ingenui quadretti che il compagno di cella dipingeva per lui. E scriveva poesie: “Io con te vorrei sedere . sotto l’ ombra di un roccione . che ci parli del passato . ed insieme disquisire . della sintesi perfetta . dell’ eterno divenire”. Come in un comico noir, questo collerico poeta aveva costretto boss mafiosi come Calderone e Bontade ad arrivare sino all’ Etna per trovargli, di domenica, l’ acqua Ferrarelle; mangiava solo riso in bianco e bistecche; non portava mai soldi con se’ , si voltava e mormorava “paga”; andava in giro in Mercedes, sempre scortato, e sembrava . racconta il pentito Calderone . “un presidente di Cassazione”. Era “elegante come un mafioso”, anellone d’ oro al mignolo, Rolex e gemelli d’ oro, occhiali scuri, abiti di lino, panama… Una volta, latitante, entro’ nella bottega del barbiere di Corleone e quest’ ultimo svenne. Se esiste la politica spettacolo, perche’ non dovrebbe esistere la mafia spettacolo? E percio’ domandava il Crocifisso, lo voleva a portata di mano quando strabuzzava gli occhi e la sua tosse rauca si trasformava in rantolo. Come un attore tragico che si prende sul serio, Liggio tuonava, ruggiva, ansimava: anche i suoi mali, come i delitti, erano da palcoscenico. Quando nel 1958 uccise il suo maestro, il medico Michele Navarra, detto u patri nostru, non sapeva di inventare un genere cinematografico: l’ omicidio in auto. Ma erano un genere pure i suoi attacchi d’ asma, e il morbo di Pott, rara forma di tubercolosi che gli sfarinava le ossa. E divennero un genere le famose assoluzioni, contro l’ evidenza, per insufficienza di prove, e fu vistosa e decorativa la deferenza dei poliziotti ma anche la leggenda degli investigatori che alla sua cattura dedicavano la vita. Come il commissario Mangano, un catanese gigantesco con una barba grigia da profeta che fu accusato, pure lui, di aver trasformato in spettacolo la lotta contro Liggio. Decimo figlio Ed erano grandiose le coliche renali che lo facevano urlare, e la prostata, e il fegato, e le macchie sulla pelle, e i reumatismi, e il cuore matto che alla fine, a sessantotto anni, ha ucciso Luciano, decimo figlio di una famiglia povera che lo voleva mandare in seminario (“per questo fui costretto a fuggire di casa”), e che si chiamava Leggio, o forse Liggio perche’ nessun nome della vecchia Sicilia e’ mai sicuro, l’ anagrafe a Corleone era una tradizione orale, e poi Leggio nella bocca dagli italoamericani e’ Liggio, cosi’ come Corleone e’ Tombstone, pietra tombale. Il suo omicidio piu’ spettacolare, quello del sindacalista Placido Rizzotto, ha ispirato a Leonardo Sciascia Il giorno della civetta, con la classifica di uomini, ominicchi e quaquaraqua’ , ma anche Sebastiano Vassalli, che pure con gli scrittori siciliani e’ in aperta polemica, nel suo Cigno si e’ servito di Liggio raccontando di un capomafia che ruba la donna alla propria vittima. E’ cosi’ infatti che fece Liggio con Leoluchina Sorisi, bella adolescente, capelli neri al vento, che amava Placido Rizzotto: quello faceva comizi e lei dietro agitava la grande bandiera rossa, ma poi fini’ appunto nel letto di Liggio che le aveva gettato il suo Placido giu’ dalla rocca Busambra, vivo e incatenato: mori’ li’ , mangiato dai cani, i topi, le donnole… E con gli anni quel dirupo divenne il cimitero privato di Liggio, centinaia di scheletri ammassati, quasi trofei o medaglie al valore mafioso. Ora dicono che era gia’ come morto, che Riina e Bagarella sono altro da lui, che si e’ spento il boss rurale, l’ ultimo re dei giardini, “sono un grande agricoltore” diceva di se’ , ancora fingendo. Ma fu Liggio che per primo porto’ la mafia a Milano, fu lui che scopri’ e la droga e la finanza, e investi’ nell’ industria e nella politica: non c’ e’ differenza con i Riina delle bombe. Liggio fu loro maestro in ferocia, nonno, padre e regista. Inventore e persino vittima della mafia come spettacolo.
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