Foto da La Sicilia del 5 Aprile 2009

Aveva arrestato l’allora diciannovenne Luciano Liggio, sorpreso a rubare, che dopo qualche mese si vendicò uccidendolo.

Tratto da: Storia della mafia: dalle origini ai giorni nostri

Di Salvatore Lupo

Ed. Donzelli

[…] Alla fine della guerra Leggio “era un giovane contadino, senza beni né risorse”; uno scassapagghiara nel senso letterale del termine, cioè un ladro di covoni di fieno sorpreso nel ’44 dalla guardia campestre Calogero Comajanni e da questi portato attraverso tutto il paese, “quasi a calci”, alla caserma dei carabinieri. Il giovanotto si vendicherà di quest’umiliazione a sei mesi di distanza, con il classico agguato sotto casa. Non è infatti esatto che egli non abbia risorse, anzi è dotato di una naturale abilità nel maneggio delle armi evidenziatasi sin dall’adolescenza, grazie alla quale diventa campiere di un certo dottor Caruso sostituendo il predecessore misteriosamente assassinato (1945). […]

 

 

Articolo da La Sicilia del 5 Aprile 2009

Comaianni, un eroe normale

di Dino Paternostro

La guardia campestre venne uccisa il 28 marzo del 1945. Sei mesi prima aveva arrestato Luciano Liggio, la futura «primula rossa» della mafia e Vito Di Frisco mentre rubavano dei covoni di grano in un campo vicino al paese

Non era un eroe Calogero Comaianni, ma un uomo normale che cercava di sfamare la moglie e i suoi cinque  figli, facendo di mestiere la guardia giurata.
Anch’egli è una vittima innocente di mafia, ma non lo ricorda quasi nessuno.
D’altra parte, non guidava le masse contadine alla conquista della terra, non faceva il magistrato e  nemmeno il poliziotto.
Era semplicemente un uomo onesto, una persona perbene. Certo, la Corleone degli anni ’40 non era il posto migliore per esercitare un mestiere che in qualche modo avesse a che fare col rispetto della legge. Ma lui ci provava lo stesso. Con equilibrio e buon senso, girava le campagne insieme alle altre guardie campestri, vigilava, dava consigli da buon padre di famiglia a qualche giovane scapestrato, tentato da qualche «scorciatoia» per uscire dalla miseria.
Il 2 agosto 1944, Comaianni stava facendo il suo solito giro di perlustrazione. Con lui c’erano le guardie campestri Pietro Splendido e Pietro Cortimiglia. Ormai era piena estate e il grano delle campagne corleonesi era stato quasi tutto mietuto da migliaia di braccianti agricoli, molti dei quali provenienti ai comuni della fascia costiera. La sola manodopera locale, infatti, non era sufficiente e si doveva ricorrere a quella proveniente da Bagheria, Misilmeri, Villabate e Ficarazzi, dove la raccolta degli agrumi era terminata da un pezzo. All’improvviso, si accorsero che due giovani stavano arraffando covoni di grano, caricandoli sui muli. «Fermi! Che fate?», gridarono le guardie. Poi si avvicinarono e li videro in faccia. Erano Luciano Liggio e Vito Di Frisco. «Alla vista degli agenti Liggio non fece una piega. Si lasciò  arrestare con quell’aria mansueta e vittimistica ostentata ogni volta che la giustizia arriverà a mettergli le mani addosso. Ma quando lo scatto delle manette gli imprigionò i polsi gettò un’occhiata di fuoco in faccia agli agenti, come per stamparseli bene nella mente», scrive Marco Nese (Nel segno della mafia.  storia di Luciano Liggio, 1975). Per quel furto Liggio rimase in galera tre mesi. Ad ottobre uscì dal carcere in libertà provvisoria, ma i volti delle guardie che l’avevano arrestato non era riuscito a dimenticarli. Aveva un amico «Lucianeddu», un coetaneo di nome Giovanni Pasqua. «Cumpà – gli disse – gli sbirri che mi hanno arrestato non la devono passare liscia. A cominciare da quel Calogero Comaianni, tuo vicino di casa». E insieme studiarono un piano per levarselo di torno. L’occasione propizia sembrò presentarsi la sera del 27 marzo 1945, sei mesi dopo che la futura «primula rossa» era uscita dal carcere. Calogero Comaianni stava rientrando nella sua casa di via Sferlazzo, in pieno centro storico, quando si vide seguito da due uomini incappucciati.
Accelerò il passò, ma pure quelli accelerarono il loro. Con uno scatto felino, la guardia giurata fu svelta a guadagnare la porta di casa, cogliendo di sorpresa i due killer. «Ho avuto l’impressione che due uomini mi seguissero», confidò alla moglie Maddalena Ribaudo. «Li hai conosciuti?», gli chiese lei. «Uno mi è sembrato Giovanni Pasqua. Ma chi può avercela con me? Io non ho fatto male a nessuno, solo il mio dovere», rispose. Il giorno dopo, di prima mattina, Calogero Comaianni pulì la stalla e poi uscì di casa per andare a buttare gli escrementi di animali nella vicina discarica. Fatti pochi passi, si accorse di avere dietro gli uomini della sera precedente. Si guardò intorno. Vide il portone aperto della stalla di un vicino di casa, provò a cercarvi riparo, ma quello glielo chiuse in faccia. Allora Comaianni capì e provò a tornare precipitosamente a casa. Fece appena il tempo a bussare, che uno dei due inseguitori gli sparò addosso due colpi di pistola. La porta si aprì e, nonostante già fosse ferito, l’uomo provò a salire i primi gradini. Fu raggiunto dai killer, che gli puntarono ancora addosso le loro armi. Comaianni si girò, guardò in faccia quello più vicino e lo riconobbe: era Giovanni Pasqua. «Giovanni, che fai?», gli gridò. Ma quello gli scaricò addosso altri colpi di pistola, ammazzandolo sul colpo. La guardia giurata aveva 45 anni. Ma la scena raccapricciante fu vista anche dalla moglie di Comaianni e da Carmelo, il figlio più grande, che corse subito a prendere il fucile per sparare agli assassini del padre. Ma fu fermato dalla madre, mentre i due killer si allontanavano a passo svelto.

«Ad ammazzare mio marito è stato Giovanni Pasqua insieme a Luciano Liggio!», disse Maddalena Ribaudo alle forze dell’ordine. E teneva stretti i suoi cinque figli: Carmelo di 22 anni, Emanuele di 19, Marianna di 16, Giuseppa di 13 e Calogero di appena 10 anni. Una vera donna-coraggio, che, insieme a tante altre di cui ci parla la storia, sfata il mito della Sicilia omertosa. Al coraggio di Maddalena, però, non seguì quello dello Stato, che non diede credito alla testimonianza di una vedova e, alla fine del ’49, il procedimento penale si concluse a carico di ignoti. Poi, la svolta. I carabinieri arrestarono Giovanni Pasqua, che confessò il delitto. «Io e Luciano – disse ai carabinieri – abbiamo atteso Comaianni nascosti a pochi passi da casa sua. Appena apparso sulla porta gli abbiamo sparato. Avevamo già provato la sera precedente, rinunciando poi all’ultimo momento. Comunque, è stato Liggio ad insistere per la liquidazione della guardia: gli bruciava ancora la storia della denuncia e voleva assolutamente vendicarsi». Anche Vito Di Frisco, il complice di Liggio nel furto dei covoni di grano, confermò quella versione. «Lucianuzzu non trovava pace e parlava continuamente di vendetta. Giurava e sacramentava che gliel’avrebbe fatta pagare a quei bastardi». Ma la testimonianza della vedova, che, difesa dall’avv. Francesco Taormina, si costituì parte civile, la confessione di Pasqua e le  dichiarazioni del Di Frisco non bastarono a far condannare gli assassini. Come da manuale, infatti, Giovanni Pasqua davanti ai giudici ritrattò tutto, sostenendo che la confessione stragiudiziale gli era stata estorta con la violenza dai carabinieri. E la Corte d’Assise di Palermo, con sentenza del 13 ottobre 1955, procedette all’assoluzione per insufficienza di prove sia di Luciano Liggio che di Giovanni Pasqua. Il 18 febbraio 1967, dopo altri 12 anni, la Corte di appello di Bari rigettava l’appello del pubblico ministero e confermava la sentenza di proscioglimento di primo grado. I giudici demolirono le accuse della moglie del Comaianni, perché «non erano coerenti» e costellate da «reticenze, contraddizioni e incertezze».

 

 

Articolo da L’Unità del 17 Febbraio 1967

Resa dei conti per Liggio noto killer della mafia

Cominciato a Bari il primo dei 20 processi contro il bandito

BARI, 16. Luciano Leggio (piu conosciuto come Liggio), il sicario della mafia, arrestato tre anni fa dopo quasi venti anni di latitanza, è alla resa dei conti. Oggi a Bari, davanti ai giudici della Corte di assise di appello, è cominciato il primo dei venti gravissimi processi che vedono Leggio al banco degli imputati. Qui a Bari l’uccisore di Navarra e Giovanni Russo, è imputato di omicidio aggravato. Con Giovanni Pasqua — dice l’accusa — ha ucciso la guardia campestre Calogero Comaianni.
Il delitto avvenne oltre 20 anni fa, nel 1945, quando da poco tempo Luciano Leggio aveva cominciato la propria attività di bandito. La guardia campestre cadde in un’imboscata: tre colpi di lupara, di cui uno mortale. Le indagini si trascinarono per anni, fino a che nei 1949 una “soffiata” indicò in Luciano Leggio e Giovanni Pasqua i due assassini. Il Pasqua fù arrestato e confessò. Poi ratrattò, accusando i carabinieri di averlo torturato. Fu creduto, nonostante avesse fornito una serie di particolari che, essendo innocente, difficilmente avrebbe potuto conoscere.
Fra l’altro, Giovanni Pasqua aveva ammesso anche la responsabilità di Leggio «Fu proprio Leggio — disse — a invitarmi a divenire complice nell’omicidio: la guardia campestre lo aveva accusato di furto e voleva vendicarsi».
Nella confessione. il Pasqua accusò Leggio di un altro delitto, quello del sindacalista Placido Rizzotto, ucciso dai sicario della mafia e barbaramente gettato in un profondo pozzo, dove il corpo tuttora si trova.
Il processo per l’uccisione di Placido Rizzotto si concluse come e finito in primo grado quello per l’assassinio della guardia campestre Comaianni: con una insufficienza di prove.
Se ormai il “caso” Rizzotto è chiuso, quello Comaianni è ancora all’esame della giustizia. Per questo Leggio è comparso in aula stamane. E’ stato interrogato e ha respinto ogni accusa: chiede un’assoluzione con formula piena. Ha affidato la propria difesa al democristiano Canzonieri, deputatato all’assemblea regionale siciliana, denunciato appena venti giorni fa dalla polizia per correità in due omicidi di mafia.Dopo gli interrogatori degli imputati, il presidente della Corte di appello di Bari (il processo si tiene in questa citta per “legittima suspicione”) ha dato la parola al patrono di parte civile, avv. Taormina, il quale ha gettato le premesse per una richiesta — che formulerà domani — di condanna per omicidio aggravato. Dopo l’avv. Taormina, interverrà il P.G., il quale chiederà quasi certamente la pena dell’ergastolo.

a.p.

 

 
Articolo da L’Unità del 19 Febbraio 1967

Liggio assolto anche in appello!

di Italo Palasciano

Si è cosi concluso il primo dei venti processi da celebrarsi contro il pericoloso bandito – Anche l’accusa ne aveva chiesto l’assoluzione

BARI, 18.
La corte d’Assise d’Appello di Bari ha assolto per insufficienza di prove, dall’imputazione di omicidio, il ” killer” della mafia Luciano Leggio (detto Liggio) e Giovanni Pasqua, imputati dell’uccisione della guardia campestre Calogero Comaianni. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, contro la quale avevano presentato appello sia i difensori degli imputati sia il P.M. e il sostituto Procuratore generale della Repubblica di Palermo. Nonostante l’appello, il P.M. qui a Bari — ove il processo si è svolto per legittima suspicione — aveva chiesto ieri a conclusione di un’arringa che aveva suscitato preoccupazioni e pesanti perplessità per l’affermazione della mancanza di conoscenza del fenomeno della mafia, l’assoluzione dei due imputati per insuflicienza di prove.
La sentenza assolutoria odierna della Corte d’Assise d’Appello di Bari lascia sgomenti e preoccupati perché sicuramente non s’inserisce nella consapevolezza dell’importanza della lotta contro la tradizionale impunità dei delitti di mafia. Ma la sentenza è anche più grave, in quanto la confessione dell’imputato Pasqua, dichiaratosi colpevole con il Leggio dell’uccisione del Comaianni, conteneva un’altra importante rivelazione. In quella circostanza il Pasqua accusò il Leggio di un altro delitto, quello del sindacalista Placido Rizzotto, ucciso barbaramente dai sicari della mafia. Il collegamento di questo processo e di quello dell’assassinio del sindacalista Rizzotto (ora all’esame dell’Antimafia) era evidente e l’avvocato di parte civile Taormina aveva chiesto di allegare quegli atti al processo di Bari. Ma questa richiesta era stata respinta dalla Corte.
La gravità della sentenza sta soprattutto anche nella fatalità — come aveva osservato questa mattina l’avv. Taormina durante la sua replica al P.M. — del passaggIo in giudicato dell’assoluzione, avendo irritualmente e incautamente il P.M. affermato che il Procuratore generale di Bari aveva concordato con lui l’inattesa richiesta di assoluzione, escludendo quindi ogni possibilità d’impugnazione e ogni possibilità che la Corte di Cassazione riveda la sentenza. La Corte ha respinto anche la richiesta della parte civile per la rinnovazione del dibattimento, che avrebbe appagato sia le preoccupazioni di coloro che hanno riserve sulla sicurezza delle  prove contro il Leggio e il Pasqua, sia coloro che, essendo sicuri di esse, non avrebbero avuto nulla da temere da un approfondimento delle prove attraverso appunto una ripresa del dibattimento. Tutto il dibattimento si è svolto in un modo pe lo meno singolare. La difesa degli imputati è stata assunta dal P.M., per cui i difensori hanno dovuto parlare pochissimo, mentre l’accusa veniva svolta solo dalla parte civile. Nel momento in cui il paese è impegnato in una storica lotta contro la mafia, la cui forza poggia anche sugli insuccessi giudiziari, la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bari è veramente sconfortante per quanti attendono che sia sradicato completamente questo fenomeno criminale.

 

 

Articolo del Corriere della Sera del 16.11.93

Il ” Professore ” del crimine che leggeva Kant

di Francesco Merlo

Nel 1944 la guardia campestre Calogero Comajanni, che aveva sorpreso il piccolo sgorbio diciannovenne a rubare il fieno, lo trascino’ a calci per tutta Corleone. Ma sei mesi dopo quel ragazzo zoppo lo uccise con un colpo di lupara tra gli occhi. Sin da bambino andava in giro con il torace imprigionato in un busto di legno e di gesso, poi da adulto lo volle in argento. Era gracile, malaticcio, molle e pallido come un cencio. Quando ammazzo’ il giudice Scaglione, per esempio, era quasi paralizzato: dal sedile posteriore dell’ auto prese la mira e sparo’ . E, sempre, il corpo fradicio e incurabile fu per lui una sola, grande piaga. E tuttavia e’ forse qui che stava il suo genio: recitava la parte del subuomo che si prende per un uomo, il vigliacco che si prende per un duro, il tisicuzzo che si prende per un rodomonte, l’ ignorante che fa il professore, attingeva il proprio talento e la propria ferocia dalla propria goffaggine, e poneva la sua grandezza nel fatto di significare che, al di la’ del ridicolo cui si e’ destinati, e’ possibile prendersi, contro ogni smentita, per colui che si sa di non poter essere. Bruciava una campagna e poi si presentava al proprietario: “Non rende, vendetemela”. A vent’ anni era gia’ ricco. In quarta abbandono’ la scuola senza sapere ne’ leggere ne’ scrivere, ma poi costrinse la maestrina di Corleone a dargli lezioni: lei gli leggeva il sillabario e lui le poggiava il fucile sul seno. Volonta’ e legge E addirittura quando, nel 1974, fu arrestato a Milano gli trovarono sul comodino una copia della Critica della Ragion Pratica. Gli avevano spiegato che alla base di quella morale sta la coincidenza tra la Volonta’ e la Legge, ma e’ difficile immaginarlo kantiano, legislatore della citta’ dei fini, “tratta gli uomini come fine e non come mezzo”. E tuttavia, gia’ nel possedere quel libro, ce n’ era abbastanza per convincere i mafiosi a chiamarlo il professore. Percio’ correggeva sfottente gli errori di grammatica al padrino Gaetano Badalamenti, lo zoticone: “Tano, non si dice mi sono mangiato. Forse che ti sei preso a muzzicuni?”. In quasi venti anni di carcere, riusci’ pure a spacciarsi per pittore firmando ingenui quadretti che il compagno di cella dipingeva per lui. E scriveva poesie: “Io con te vorrei sedere . sotto l’ ombra di un roccione . che ci parli del passato . ed insieme disquisire . della sintesi perfetta . dell’ eterno divenire”. Come in un comico noir, questo collerico poeta aveva costretto boss mafiosi come Calderone e Bontade ad arrivare sino all’ Etna per trovargli, di domenica, l’ acqua Ferrarelle; mangiava solo riso in bianco e bistecche; non portava mai soldi con se’ , si voltava e mormorava “paga”; andava in giro in Mercedes, sempre scortato, e sembrava . racconta il pentito Calderone . “un presidente di Cassazione”. Era “elegante come un mafioso”, anellone d’ oro al mignolo, Rolex e gemelli d’ oro, occhiali scuri, abiti di lino, panama… Una volta, latitante, entro’ nella bottega del barbiere di Corleone e quest’ ultimo svenne. Se esiste la politica spettacolo, perche’ non dovrebbe esistere la mafia spettacolo? E percio’ domandava il Crocifisso, lo voleva a portata di mano quando strabuzzava gli occhi e la sua tosse rauca si trasformava in rantolo. Come un attore tragico che si prende sul serio, Liggio tuonava, ruggiva, ansimava: anche i suoi mali, come i delitti, erano da palcoscenico. Quando nel 1958 uccise il suo maestro, il medico Michele Navarra, detto u patri nostru, non sapeva di inventare un genere cinematografico: l’ omicidio in auto. Ma erano un genere pure i suoi attacchi d’ asma, e il morbo di Pott, rara forma di tubercolosi che gli sfarinava le ossa. E divennero un genere le famose assoluzioni, contro l’ evidenza, per insufficienza di prove, e fu vistosa e decorativa la deferenza dei poliziotti ma anche la leggenda degli investigatori che alla sua cattura dedicavano la vita. Come il commissario Mangano, un catanese gigantesco con una barba grigia da profeta che fu accusato, pure lui, di aver trasformato in spettacolo la lotta contro Liggio. Decimo figlio Ed erano grandiose le coliche renali che lo facevano urlare, e la prostata, e il fegato, e le macchie sulla pelle, e i reumatismi, e il cuore matto che alla fine, a sessantotto anni, ha ucciso Luciano, decimo figlio di una famiglia povera che lo voleva mandare in seminario (“per questo fui costretto a fuggire di casa”), e che si chiamava Leggio, o forse Liggio perche’ nessun nome della vecchia Sicilia e’ mai sicuro, l’ anagrafe a Corleone era una tradizione orale, e poi Leggio nella bocca dagli italoamericani e’ Liggio, cosi’ come Corleone e’ Tombstone, pietra tombale. Il suo omicidio piu’ spettacolare, quello del sindacalista Placido Rizzotto, ha ispirato a Leonardo Sciascia Il giorno della civetta, con la classifica di uomini, ominicchi e quaquaraqua’ , ma anche Sebastiano Vassalli, che pure con gli scrittori siciliani e’ in aperta polemica, nel suo Cigno si e’ servito di Liggio raccontando di un capomafia che ruba la donna alla propria vittima. E’ cosi’ infatti che fece Liggio con Leoluchina Sorisi, bella adolescente, capelli neri al vento, che amava Placido Rizzotto: quello faceva comizi e lei dietro agitava la grande bandiera rossa, ma poi fini’ appunto nel letto di Liggio che le aveva gettato il suo Placido giu’ dalla rocca Busambra, vivo e incatenato: mori’ li’ , mangiato dai cani, i topi, le donnole… E con gli anni quel dirupo divenne il cimitero privato di Liggio, centinaia di scheletri ammassati, quasi trofei o medaglie al valore mafioso. Ora dicono che era gia’ come morto, che Riina e Bagarella sono altro da lui, che si e’ spento il boss rurale, l’ ultimo re dei giardini, “sono un grande agricoltore” diceva di se’ , ancora fingendo. Ma fu Liggio che per primo porto’ la mafia a Milano, fu lui che scopri’ e la droga e la finanza, e investi’ nell’ industria e nella politica: non c’ e’ differenza con i Riina delle bombe. Liggio fu loro maestro in ferocia, nonno, padre e regista. Inventore e persino vittima della mafia come spettacolo.

 

Fonte: http://vittimemafia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=183%3A28-marzo-1945-corleone-pa-ucciso-calogero-comajanni-guardia-campestre-sei-mesi-p

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