Le esplosive accuse del direttore del Consiglio per il Commercio della Casa Bianca Peter Navarro contro la Germania, accusata di praticare una politica commerciale sleale attraverso lo sfruttamento sistematico di un “euro grossolanamente svalutato”, hanno rappresentato una decisa presa di posizione da parte dell’amministrazione di Washington, ora più che mai in rotta di collisione con Berlino.Nonostante l’attenzione costantemente rivolta dai media internazionali sul rischio di un conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina, le prospettive intuibili dalle prime politiche annunciate od avviate dall’amministrazione Trump rendono decisamente più plausibile un’analoga trade war coinvolgente Stati Uniti e Germania. Il contenzioso economico sino-americano, infatti, rientra nel quadro di una delicatissima dialettica che include altre importanti questioni di carattere geopolitico e nella quale qualsiasi strappo potrebbe causare un imprevedibile effetto domino su scala planetaria, considerato anche l’elevatissimo potere di fuoco di cui Pechino dispone in virtù del suo possesso di un’ingente fetta del debito pubblico americano. Uno scontro frontale tra le due principali potenze economiche mondiali sul terreno commerciale e monetario equivarrebbe a una vera e propria garanzia di “distruzione mutua assicurata”, come puntualizzato dal direttore di Limes Lucio Caracciolo nell’editoriale d’apertura all’ultimo numero della rivista, specie se Pechino dovesse ricorrere all’extrema ratio, la vendita in blocco di tutta la quota di debito americano in suo possesso.
La possibilità che il prossimo futuro possa riservare uno scontro diretto tra le politiche economiche degli Stati Uniti e della Germania, invece, è decisamente incrementata da alcune importanti questioni concernenti la natura della relazione commerciale tra i due Paesi e l’aperta conflittualità tra le prospettive di una sua espansione e le politiche annunciate dall’amministrazione Trump. Nella bilancia commerciale tra Stati Uniti e Germania facente riferimento al 2016, nella quale i primi hanno accumulato un deficit di 59,556 miliardi di dollari su un interscambio di poco inferiore ai 150 miliardi, le esportazioni tedesche erano “composte principalmente da beni ad alto valore aggiunto, come le automobili, costituenti da sole il 12% del totale, le componenti dei veicoli, i prodotti chimici e farmaceutici e i prodotti del settore aerospaziale”, come puntualizzato da Matthew Lynn in un articolo pubblica per Marketwatch. I prodotti in questione rientrano nella gamma di compound individuati da Trump come motori per il rilancio della produzione interna statunitense: in questo ambito, come noto, un ruolo di primo piano è sicuramente giocato dai piani di sviluppo dell’industria dell’auto e del potenziale produttivo dell’area della Rust Belt letteralmente rasa al suolo dallo smantellamento progressivo degli impianti produttivi tra gli Anni Settanta e Novanta.
L’incontro tra Trump e i CEO di Fiat Chrysler, Ford e General Motors dello scorso 24 gennaio ha aperto la strada a questo importante cambio di rotta, sancito dall’annuncio di nuovi investimenti da parte dei rappresentanti del tradizionale “gioiello della corona” dell’industria manifatturiera americana ma al tempo stesso di difficile realizzazione, vista l’elevata internazionalizzazione della catena del valore conosciuta dal settore automobilistico. Meno nota ma al tempo stesso rilevante è l’attenzione che Trump ha rivolto al rilancio della produzione farmaceutica statunitense: incontrando i dirigenti di Amgen, Novartis, Merck, Eli Lilly e Johnson & Johnson lo scorso 31 gennaio, Trump ha infatti raccomandato loro di eseguire nuovi, consistenti investimenti sul suolo americano, garantendo una semplificazione dei regolamenti vincolanti per l’introduzione in circolazione dei farmaci nel caso in cui le imprese si dimostreranno in grado di abbassare i prezzi dei prodotti, definiti dal Presidente “astronomici”. Il presidente ha incorporato un’importante istanza della piattaforma elettorale dell’ex candidato alla nomination democratica Bernie Sanders, che faceva della necessità di abbassare i prezzi dei farmaci per rilanciare Medicare e Medicaid un caposaldo della sua politica, nell’ambito della sua strategia “nazional-liberista”, fondata sulla conglomerazione tra l’incentivazione all’azione delle imprese e un’attività statale dell’economia divisa tra la funzione di regolamentazione e l’intervento diretto. La piattaforma industriale di Trump, come visto, pone gli Stati Uniti in diretta concorrenza con la Germania, specie se a queste politiche dovessero aggiungersi i dazi doganali promessi dal Presidente nel corso della sua campagna elettorale per tutelare i principi della sua politica Buy American, hire American.
Alla questione commerciale è strettamente legata la tematica valutaria. Il nucleo stesso dell’accusa lanciata da Navarro, infatti, era la definizione della Germania come un Paese manipolatore di moneta, impegnato a sfruttare deliberatamente i vantaggi concessi da un euro eccessivamente svalutato, ritenuto essere la principale causa del deficit statunitense precedentemente citato. Jordan Weissman si è dichiarato d’accordo con Navarro su Slatepuntualizzando come il vantaggio acquisito dalla Germania nei confronti degli Stati Uniti sotto il profilo commerciale sia simmetricamente correlato alla precedente marginalizzazione tedesca degli altri Paesi dell’Unione Europea. Tale processo è stato il frutto della politica mercantilistica condotta per anni dalla Germania partendo dalla compressione del fattore produttivo lavoro sul piano interno, già ampiamente denunciata da economisti come Alberto Bagnai, attraverso il quale Berlino ha accumulato un elevatissimo surplus commerciale col resto del continente, appoggiandosi in seguito sulla piattaforma europea per poter competere autonomamente contro il resto del mondo.
Secondo Navarro, è l’atteggiamento giudicato da questi irresponsabile dalla Germania ad aver reso irrealizzabile la strategia del TTIP, al cui negoziato in ogni caso il Presidente Trump si è apertamente opposto: la combinazione tra la scelta strategica compiuta dalla Germania nella destinazione del suo export e il vantaggio competitivo acquisito da Berlino in Europa, nell’ottica di Navarro, avrebbero portato a conseguenze potenzialmente distorsive sul lungo termine. A corroborare le dichiarazioni di Peter Navarro e il commento di Weismann sono giunte le puntualizzazioni del ministro delle Finanze Tedesco Wolfgang Schäuble, il quale ha affermato di ritenere effettivamente l’euro come una moneta eccessivamente debole per il posizionamento competitivo della Germania, ma al tempo stesso ha rovesciato le accuse su Mario Draghi, nel mirino del “falco” dell’austerità per aver favorito la svalutazione della moneta attraverso le politiche di quantitative easing.
Questo il quadro economico. Tuttavia, lo scenario entro cui potrebbe sedimentarsi nei prossimi anni una possibile conflittualità tra Germania e Stati Uniti non è frutto solo di dinamiche commerciali e monetarie, e va analizzato in diretta correlazione all’evoluzione del contesto geopolitico. Non sarà solo Detroit contro Wolfsburg, Trump contro Merkel o dollaro contro euro: lungi dal presentarsi come lineare, infatti, la situazione è resa complessa dal ruolo che potrebbero giocare Paesi terzi tra cui emergono in primo piano Russia e Cina. L’incubo strategico per eccellenza di Washington, infatti, sarebbe rappresentato da una saldatura geostrategica tra Germania, Russia e Cina catalizzata dalla comunanza di interessi economici e dall’evoluzione della connettività euroasiatica sulla scia dell’espansione della “Nuova Via della Seta” ideata dal leader di Pechino Xi Jinping: ipotesi che allo stato attuale delle cose appare decisamente di difficile realizzazione stanti l’aperta conflittualità tra la Federazione Russa e l’Unione Europea e il ruolo giocato dalla Merkel nell’imposizione delle sanzioni contro Mosca, ma che nel prossimo futuro potrebbe diventare oltremodo concreta in base alla realizzazione di opportuni scenari tattici e strategici. In primo luogo, infatti, la strategia One Belt, One Road ha tra i suoi capisaldi l’inclusione di Russia e Germania sulle rotte della “Nuova Via della Seta”, come confermato dall’incentivazione cinese degli investimenti volti a collegare i paesi attraverso una rete infrastrutturale dall’importanza che il governo di Pechino assegna ad uno dei potenziali “terminali” della rotta in via di realizzazione, il grande porto fluviale di Duisburg, posto alla confluenza tra Ruhr e Reno in prossimità del cuore industriale dell’Europa e visitato nel 2014 da Xi Jinping.
In secondo luogo, Germania e Cina sarebbero spinte a una forte convergenza nel caso in cui gli Stati Uniti implementassero una forte relazione con una Gran Bretagna apertamente concorrenziale all’Unione dopo la concretizzazione del Brexit e, al contempo, spingessero in Asia sulla strategia del containment della Repubblica Popolare negli spazi oceanici. In questo contesto, l’apertura di Trump alla Russia può essere anche letta come la precauzione degli Stati Uniti contro la concretizzazione di un disegno strategico ad essi ampiamente sfavorevole, che rivaluterebbe il potenziale geopolitico dei grandi spazi euroasiatici a scapito dell’importanza del predominio di Washington, basato principalmente sul dominio dei mari. La chiave di volta per la realizzazione del citato “incubo strategico” statunitense sarebbe una presa di coscienza, da parte di Germania e Russia, della natura essenzialmente complementare dei loro sistemi economici, fondata sulla convenienza tedesca a ricevere le materie prime fornitele da Mosca e su quella russa ad acquistare prodotti ad alto valore aggiunto e a forte contenuto tecnologico provenienti dalla Germania. Un primo segnale di incoraggiamento al dialogo russo-tedesco potrebbe esser stato lanciato nella giornata del 12 febbraio, quando i delegati parlamentari e federali tedeschi hanno eletto come Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier, che nel precedente incarico di Ministro degli Esteri aveva sempre auspicato la necessità di mantenere aperto il dialogo tra Berlino e Mosca.
Il vento della geopolitica planetaria soffia nella direzione di una progressiva crescita della rivalità tedesco-americana basata principalmente su motivazioni economiche, ma nei prossimi anni anche queste considerazioni strategiche potranno giocare un ruolo rilevante: se gli abboccamenti tra Trump e Putin non si concretizzeranno in un effettivo riavvicinamento e la Germania saprà acquisire una rilevanza internazionale sciolta dal declinante posizionamento dell’Unione Europea e veicolare precise istanze di politica estera, un’ipotesi ben tenuta presente dal governo di Pechino e oggigiorno difficile da realizzare potrebbe esser destinata a materializzarsi.