(Francesco Angelone) La proposta presentata dalla Commissione europea sulla revisione del Registro per la trasparenza sta suscitando, prevedibilmente, un acceso dibattito.
Pare infatti che essa circoscriva l’attività di lobbying alle “interazioni” con policy-maker e decisori e, per questo, sia da considerarsi troppo ambigua e timida. Se è vero che la definizione di lobbying resterebbe praticamente quella attualmente in vigore, cioè la promozione di interessi presso le istituzioni UE con l’obiettivo di influenzare le politiche e la legislazione, pare che l’iscrizione al registro diventi obbligatoria solo se tale promozione si sostanzi in interazioni con i decisori. Questo emerge da una lettura restrittiva dell’articolo 5 della proposta di Accordo interistituzionale della Commissione che parla di accesso alle istituzioni, incontri, partecipazione alle consultazioni pubbliche e corrispondenza.
La conseguenza di tale lettura è piuttosto chiara. Resterebbero escluse da questa definizione le attività di ricerca, campagne media, l’organizzazione di eventi che, seppure non nella forma di interazioni dirette, hanno pur sempre l’obiettivo di influenzare il processo di formazione delle politiche in sede UE. Così, come ulteriore conseguenza, non vi sarebbe neanche la necessità di dichiarare i costi sostenuti per tali attività e il numero di persone impiegate nelle stesse.
Diversamente da quanto i maligni possano pensare, però, la questione preoccupa non solo chi reclama maggiore trasparenza nei processi legislativi ma le stesse società di lobbying, i cui clienti pagano sì per la cosiddetta fase di engagement con i decisori ma anche per tutta quella attività di back-office, di pianificazione e consulenza che i lobbisti mettono in campo. Un articolo di LobbyFacts mostra chiaramente questa situazione per cui le 20 più importanti società di lobbying operanti a Bruxelles hanno tenuto solo 203 incontri con alti funzionari della Commissione dal dicembre 2014, data in cui la Commissione ha cominciato a pubblicare gli incontri di Commissari, Direttori Generali e membri dei gabinetti con i lobbisti. Un dato anomalo se paragonato a quello di ONG o multinazionali come Google, che nello stesso periodo ha incontrato gli stessi interlocutori ben 117 volte.
Indicativo l’esempio di Fleishman-Hillard, la società di lobbying che dichiara i costi più elevati per le proprie attività (più di 6,25 milioni di Euro l’anno), che dispone di 48 pass per il Parlamento Europeo e impiega 26 lobbisti a tempo pieno. Pensare che tali costi corrispondano solo alle interazioni dirette con i legislatori di Bruxelles è alquanto irrealistico se considerato che questi sono solamente 15 in quasi due anni. Non meno significativo l’esempio di Burson-Marsteller che impiega 35 lobbisti a tempo pieno, dispone di 29 pass per il Parlamento, spende più di 5 milioni di Euro l’anno e in quasi due anni ha partecipato a solo 4 high-level meeting con la Commissione. Si potrà contestare, come fa LobbyFacts, che a questo tipo di incontri partecipino direttamente i clienti e che, invece, i lobbisti abbiano precedentemente preparato il campo con incontri di più basso livello. Tesi smentita, però, da un articolo di ALTER-EU (Alliance for Lobbying Transparency and Ethics Regulation). Insomma, è nell’attività dietro le quinte che le società di lobbying (e gli studi legali) spendono energia e risorse ed è soprattutto per queste che vengono pagate.
Sorge spontanea una domanda: quanta parte di queste spese dichiarate scomparirà dal Registro per la Trasparenza se le società di lobbying saranno obbligate a notificare solo i costi sostenuti per l’interazione diretta con funzionari e parlamentari? Presumendo che sia la gran parte degli stessi, i dubbi circa la validità della proposta di modifica del Registro avanzata dal Commissario Timmermans a fine settembre si fanno sempre più concreti.
FONTE: Lobbying Italia