Terzo capitolo del ciclo di approfondimenti introdotto dall’articolo «Sarà la globalizzazione a scatenare le nuove guerre etniche invece di impedirle» (IPN). Precedenti capitoli: 1. Che vuol dire “razza”? E cos’è davvero il razzismo? 2. Che cos’è un’etnia e come difendersi dagli autorazzisti.

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nazioneRoma, 7 dic – I concetti di «popolo» e «nazione» – com’è noto – sono spesso usati come sinonimi, e sotto certi aspetti lo sono. In questo contributo cercheremo pertanto di illustrarne sinteticamente i contenuti, le analogie come le differenze. In questo modo, speriamo di riuscire a fare un po’ di chiarezza su due termini tanto antichi e importanti nella storia dell’Europa, i quali sono oggi pericolosamente insidiati dall’ideologia globalista.

Sulla presunta inconsistenza di queste due realtà, infatti, i santoni della globalizzazione hanno investito tutto il loro arsenale propagandistico: non esistono popoli – ci dicono – ma unicamente individui che per pura fatalità sono nati in una determinata società, peraltro fatalmente e irreversibilmente destinata a dissolversi nel villaggio globalizzato prossimo venturo; non esistono nazioni – ci assicurano – bensì solo aggregati umani relativamente recenti che i malvagi «nazionalisti» vorrebbero mobilitare sulla base di «tradizioni inventate». E tutto questo viene sostenuto malgrado si continui a parlare ossessivamente di «democrazia» (in cui la sovranità – così ci hanno insegnato – apparterrebbe per l’appunto al «popolo») e di «tradizioni» illuministiche a antifasciste da venerare e perpetuare. Un bel rompicapo teorico che, non di rado, scade nel grottesco: la democrazia fondata sulla «sovranità popolare» va difesa dai «nazionalisti» razzisti e xenofobi, eppure chiunque tenti di farsi portavoce del «popolo sovrano» contro derive oligarchiche è subito bollato e condannato come… «populista» razzista e xenofobo!

Di là però da questa ideologia miserabile, spacciata per scienza, che è mangime quotidiano per i borghesucci semicolti che leggono Repubblica e pensano che Saviano sia un intellettuale, che cosa ne sappiamo noi veramente di popoli e nazioni? Ebbene, intanto sappiamo che si tratta di concetti molto complessi e stratificati sia diacronicamente che sincronicamente: questi due termini hanno cioè significato cose anche molto diverse nelle varie epoche della storia del pensiero occidentale e, al contempo, non sempre erano intesi nella stessa maniera da autori tra loro coevi, i quali hanno anzi investito questi concetti delle loro personali (e talvolta interessate) interpretazioni. In questa sede non ricostruiremo dettagliatamente la storia di queste due parole[1], ma ci limiteremo a cenni fugaci che, però, ci aiuteranno a comprendere meglio il significato moderno dei concetti di popolo e nazione. Ma soprattutto – e questo è decisivo – ci aiuteranno a capire qual è veramente la posta in gioco nell’attuale dibattito sul destino dei popoli e delle nazioni.

Innanzitutto possiamo dire che il concetto di «popolo» è utilizzato in due accezioni principali, le quali possono anche essere in contraddizione: il popolo indica, cioè, tanto una popolazione nel suo insieme, quanto la «moltitudine» che si contrappone ai «pochi», ossia alla classe dirigente. Il «popolo», pertanto, può essere il «tutto», ma anche una «parte» – la qual cosa ha causato e causa tuttora non poca confusione nel linguaggio politico. Nel secondo caso, infatti, una parte si fa garante e portavoce del tutto contro un’oligarchia arrogante e dispotica, la quale risponde tacciando i suoi avversari di «populismo». Ma di quest’ultimo termine ci occuperemo in altra sede.

Ad ogni modo, nella sua accezione moderna (da Rousseau e dai romantici in poi), il popolo – quando non è additato dai reazionari (o dai globalisti) come plebe o massa di bifolchi, oppure non è, come nelle democrazie parlamentari, una mera astrazione giuridica – si configura generalmente come una comunità organica che condivide alcuni tratti identificanti: discendenza, lingua, tradizioni, cultura, ecc. Il popolo, insomma, presuppone una «volontà generale» (Rousseau), ovvero – per dirla con Mazzini e Gentile – un’«unità morale». Solo nella misura in cui una popolazione raggiunge l’unità morale, ossia la piena coscienza di essere comunità, cessa di essere solo un’etnia (o un aggregato di etnie) e si trasforma in popolo, e cioè in comunità organica di destino. In questo senso un popolo non corrisponde necessariamente a un’etnia o a una razza (benché, ovviamente, categorie etniche svolgano spesso un ruolo rilevante nella formazione dei popoli), ma è un’entità prepolitica che tende necessariamente a farsi politica nella «nazione». La nazione pertanto, una volta costituitasi in Stato, rappresenta l’unità politica ed etica di un popolo. Popolo è quindi in primo luogo un’entità sociologica, mentre nazione è una categoria più genuinamente politica: entrambi i concetti si riferiscono a una comunità organica che – rispetto ai meri legami etnici, ancorati alla sola «natura» – ha acquisito una coscienza superiore della sua identità e del suo destino.

Questa definizione di massima ci conduce quindi alla questione decisiva: popoli e nazioni sono categorie «naturali» o «culturali»? Sono un «fatto» o un «farsi»? Sono «essenze» o «costruzioni»? La questione, lo premetto subito, è a mio parere mal posta, ma è tuttavia indispensabile confrontarvisi più da vicino. In alcuni ambienti del nazionalismo ottocentesco, infatti, popoli e nazioni sono stati spesso concepiti come meri dati di fatto, ossia come realtà esistenti ab aeterno, e cioè perenni e immutabili. Contro quest’approccio «naturalistico» avevano già reagito in Italia Giambattista Vico (1668-1744), Giuseppe Mazzini (1805-1872) e poi Giovanni Gentile (1875-1944), i quali tentarono di descrivere nazioni e popoli nel loro processo storico di formazione e sviluppo. Per questi autori, dunque, popolo e nazione sono realtà in divenire (ma pur sempre realtà!), ovvero soggetti politici «in cammino» (per citare Gioacchino Volpe) verso la loro autocoscienza. Contro naturalismi e positivismi di ogni sorta, questa nuova consapevolezza («superiore») fu quindi fatta propria dal fascismo: «E perciò il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti. Di tutti coloro che dalla natura e dalla storia, etnicamente, traggono ragione di formare una nazione, avviati sopra la stessa linea di sviluppo e formazione spirituale, come una coscienza e una volontà sola. Non razza, né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da una idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità»[2].

Il concetto è chiaro: le etnie, legate da vincoli di discendenza e di cultura, diventano popoli nella misura in cui acquisiscono la coscienza di essere una comunità di destino e, al contempo, la loro volontà è incarnata da un’«aristocrazia del comando» che questa volontà riesce a far esprimere. In questo senso aveva ragione il filosofo Claudio Cesa: il concetto di «popolo» – che nelle democrazie parlamentari dovrebbe essere il detentore della «sovranità» – possiede sì una forte «carica antiautoritaria» (ma direi piuttosto anti-dispotica), eppure «c’è, insieme, una altrettanto forte carica cesaristica, nel senso che chi si appella al popolo lo fa per contestare una oligarchia governante (nobiliare, proprietaria, burocratica, parlamentare) che ne usurperebbe i diritti, prospettando, in alternativa, un rapporto più diretto tra base e vertice, che economizzi, per così dire, sul costo e sui tempi della intermediazione. L’ideologia popolare è alternativa al regime rappresentativo, anche se non sempre si osa dirlo apertamente». Il popolo, dunque, mal tollera oligarchie boriose e parassitarie, «mentre il capo è il simbolo vivente dell’unità, legittimato dalla democrazia plebiscitaria, nella quale il popolo esercita, ogni volta, un ruolo costituente, che lo colloca sopra le leggi. Già Weber notava che “ogni democrazia ha questa inclinazione”; e non è un caso che molti avversari delle dittature del XX secolo abbiano rimpianto la legittimità andata in frantumi nel corso delle rivoluzioni, o abbiano proposto un “ordine” senza popolo»[3].

Ecco: un «ordine senza popolo» è proprio il sogno inconfessabile delle élites globaliste. Il popolo, infatti, tende necessariamente a divinizzare sé stesso, e in questo senso è «anti-autoritario», ossia non tollera le «autorità morali» di oligarchie arroganti e antipopolari. E di converso le élites globaliste, gonfie della loro boria, non possono che odiare il «popolo», soprattutto quando quest’ultimo si ribella alla loro presunta «autorità». Stiamo per arrivare al cuore del problema: se il popolo è razzista, idolatra e bifolco, che si può fare? Ma è ovvio: basta sbarazzarsene. A livello fisico, certo, con i progetti inquietanti di «grande sostituzione»[4]. Eppure, prima di tutto, bisogna annientarlo a livello culturale (fase propedeutica all’annientamento fisico), e quindi bisogna innanzitutto «decostruirlo». E proprio il «decostruzionismo», infatti, si è imposto come corrente egemone nel dibattito scientifico su etnie e nazioni. Drogato da filosofia postmoderna, individualismo liberale e materialismo marxista, il dibattito decostruzionista sulle nazioni ha visto i suoi natali negli Ottanta: i nomi di Ernest Gellner, Benedict Anderson ed Eric Hobsbawm sono in questo senso i più autorevoli[5]. Prima di passare velocemente in rassegna le loro tesi, non sarà inutile fornire qualche informazione sul retroterra ideologico di questi autori: se Gellner è un liberale di stampo illuminista, avido lettore di Karl Popper, Anderson e Hobsbawm sono invece due marxisti in piena regola. Insomma, abbiamo a che fare con internazionalisti di razza, sia che tale cosmopolitismo venga declinato alla maniera liberal-capitalista o non piuttosto in salsa trotzkista: nel loro odio viscerale per i popoli e le nazioni, d’altronde, liberali e comunisti si son sempre trovati d’accordo. Corrispondenze d’amorosi sensi, verrebbe da dire.

Ebbene, per Gellner alla base delle nazioni sono presenti «elementi di artificio, di invenzione e di ingegneria sociale», mentre Hobsbawm parla esplicitamente delle nazioni come di «costruzioni» ideologiche realizzate dai teorici nazionalisti (e borghesi) dell’Ottocento: in tutti e due i casi si tratterebbe di «invenzioni», di costruzioni di realtà che non esistono. Anderson invece è diventato famoso per il suo concetto di «comunità immaginate». Il concetto non è così triviale come può apparire a prima vista: secondo Anderson le nazioni si configurano come «immaginate» nel senso che i membri della comunità non conosceranno mai tutti i loro connazionali e, pertanto, il sentimento nazionale non può che essere indotto dalla propaganda nazionalista che produce «miti artificiali» sulle origini della comunità di riferimento. Si tratterebbe, in sostanza, di una «sovrastruttura», per usare il linguaggio marxista tanto caro a questi studiosi. A questo coro di decostruzionisti, in ogni caso, si è unita recentemente anche la voce del medievista Patrick Geary, che si è sforzato di dimostrare che la storia delle moderne nazioni non inizierebbe nel VI secolo, bensì nel Settecento. Le nazioni, intese come prodotti di processi etnogenetici di lunga durata, sarebbero di conseguenze solo un «mito»[6]. Queste sono, dunque, le tesi dei «modernisti» o «strumentalisti», che oggi sembrano andar per la maggiore e che per questo sono sventolate dai giornalisti liberal (ma invero anche da alcuni accademici sprovveduti) come la «pistola fumante» che proverebbe l’inconsistenza, o meglio l’inesistenza delle realtà nazionali.

Eppure, malgrado la grancassa dei globalisti, non tutti la pensano allo stesso modo. Ad esempio, pur partendo da una posizione anti-essenzialista (e antirazzista), un autorevole collega di Geary, l’austriaco Walter Pohl, la vede in maniera leggermente diversa. Sebbene dia eccessivo credito alle teorie ferocemente anti-identitarie dell’antropologo Francesco Remotti[7], secondo Pohl le etnie che hanno dato vita alle nazioni moderne sono riconoscibili già nell’Alto medioevo: «L’Alto medioevo ha avuto un ruolo chiave nello sviluppo degli atteggiamenti europei verso le identità etniche. L’Europa è straordinaria nella storia del mondo perché il suo paesaggio politico è dominato, da più di un millennio, da un sistema assai stabile di stati etnici»[8]. Ma il più celebre dei teorici «primordialisti» (o «perennisti») è senz’altro il sociologo britannico Anthony Smith, il quale ha insistito molto sulle origini medievali delle etnie europee che si sono poi composte in nazione. Benché non interessato alle basi biologiche dei popoli europei, Smith ha teorizzato il cosiddetto «etnosimbolismo», il quale si propone di studiare il fitto (e risalente) reticolo di elementi mitici, simbolici e affettivi che hanno accompagnato la nascita delle nazioni e che gli paiono difficilmente estirpabili proprio in quanto elementi profondi e radicati nella vita dei popoli[9].

Dopo questa sintetica rassegna, dobbiamo tornare a porci la domanda decisiva: i popoli e le nazioni sono essenze o costruzioni? Ebbene, possiamo certamente dire che essi si offrono a noi come il risultato di processi secolari, se non millenari, di etnogenesi. I popoli, in altre parole, non esistono in un fumoso iperuranio in cui sarebbero sempre identici a sé stessi, bensì si configurano come realtà dinamiche e storiche che si sono formate in base a determinati fattori: per discendenza o per aggregazione, per cultura e tradizioni affini, facendo appello a miti e progetti comuni. Una cosa però deve essere chiara: le nazioni si formano sempre nel momento in cui un «noi» si deve contrapporre a un «loro». Questo implica che alcuni popoli hanno «scoperto» o deciso di essere tali nel momento in cui hanno riconosciuto dei tratti distintivi che li contrapponevano a un nemico comune (in un altro capitolo vedremo le origini di alcune nazioni europee, e in particolare dell’Italia). Che questi popoli, prima di diventare tali, non avessero coscienza di questa identità comune – che noi possiamo apprezzare solo a posteriori – è irrilevante. In base a questo dato, peraltro evidente, i decostruzionisti sperano di smascherare l’«inganno etnico». E invece questa realtà irrefutabile ci conferma esattamente che i popoli nascono proprio nel momento in cui, fondandosi su un’identità comune, tentano di superare una cristallizzazione naturalistica e, al contempo, di progettarsi nella storia. Le nazioni sono «costruzioni», dunque? Certo: le nazioni sono state «costruite» nei secoli dal sacrificio e dal sangue dei loro eroi, dei loro condottieri, dei loro scienziati, dei loro esploratori, dei loro umili ma fieri lavoratori. I popoli europei, proprio perché sono nella storia, possono certamente uscirne, estinguendosi in un fragoroso sbadiglio. Oppure possono ridestarsi e rinascere. Entrambi gli scenari sono possibili. Ma a decidere quale prevarrà non saranno certo i santoni della «fine della storia». Il nostro destino è sempre e solo nelle nostre mani. Sta a noi dimostrare – per citare Mussolini e Gentile – se abbiamo ancora, come popolo autocosciente, «volontà di esistenza e di potenza».

Valerio Benedetti    

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Note

[1] Per una storia concettuale di questi due termini, cfr. soprattutto R. Koselleck et al., Volk, Nation, Nationalismus, Masse, in O. Brunner – W. Conze – R. Koselleck (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, vol. VII, Klett-Cotta, Stuttgart 1992, pp. 141-431; F. Tuccari, Nazione, idea di, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. VI, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1996, pp. 213-223; M. Caravale – C. Cesa, Popolo, ibid., pp. 682-703.

[2] B. Mussolini [e G. Gentile], La dottrina del fascismo (1932), in Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 44 voll., La Fenice, Firenze 1951-1963, poi Volpe, Roma 1978-1980, vol. XXXIV, pp. 115-138, qui p. 120.

[3] C. Cesa, Popolo, cit., p. 703.

[4] Cfr. su tutti R. Camus, Le Grand Remplacement, Reinharc, Paris 2011.

[5] Cfr. soprattutto E. Gellner, Nazioni e nazionalismi (1983), trad. it., Editori riuniti, Roma 1997; B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi (1983), trad. it., Manifestolibri, Roma 1996; E. J. Hobsbawm – T. O. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, trad. it., Einaudi, Torino 1987.

[6] Cfr. P. J. Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, trad. it., Carocci, Roma 2010.

[7] Cfr. F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996.

[8] W. Pohl, Razze, etnie, nazioni, Aragno, Torino 2010, pp. 51-52.

[9] Cfr. soprattutto A. D. Smith, Le origini etniche delle nazioni (1986), trad. it., il Mulino, Bologna 1998.
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