“Vi chiediamo di perdonare l’uso del maschile “bambino” come da consuetudine, vorremmo che venisse inteso come termine “neutro”, che includa entrambe i generi.”
Negli ultimi anni, stiamo assistendo ad un fenomeno di crescente interesse riguardo al tema dell’outdoor education, cioè dell’educazione in ambienti naturali. Molto si legge, si sente e si vede, a proposito di una distanza da colmare tra bambini e natura, fin dalla pubblicazione dell’ormai famoso libro “L’ultimo bambino nei boschi”. In questo libro viene spiegato come il distacco tra bambini e natura favorisca una serie di problematiche fisiche e psichiche che non avrebbero luogo se questa lontananza venisse ridotta attraverso pratiche educative svolte in contesti naturali.
In Italia, l’interesse verso un tipo di educazione a contatto con la natura è letteralmente esploso negli ultimi anni, grazie alla crescente offerta di corsi di formazione proposti da alcune realtà che sono riuscite a svilupparsi in un clima di crescente curiosità.
Alcune personalità accademiche che collaborano con l’Università di Bologna, da molto tempo attiva nella definizione di questo specifico ambito educativo, si stanno applicando su diversi piani per la diffusione e la sperimentazione di questo approccio. Il tentativo è di coinvolgere anche le scuole pubbliche in quello che da alcuni viene definito come un cambio di paradigma, in grado di influenzare l’intero sistema educativo nazionale. Trovate il sito di riferimento a questo link.
Attualmente le iniziative legate all’outdoor education stanno coinvolgendo principalmente le scuole dell’infanzia. Per quanto riguarda la scuola primaria ci sono molti ostacoli, non ultimo quello che configura le famiglie all’interno di un percorso educativo obbligatorio, inquadrato nell’immaginario collettivo come un sistema classicamente standardizzato e nonostante tutto, funzionale. In buona sostanza, diamo più natura ai bambini fino ai sei anni, poi però bisogna imparare a leggere, scrivere, risolvere problemi di geometria e studiare storia.
Esistono delle criticità che a nostro avviso vanno affrontate e chiarite, per evitare che questi nuovi virtuosismi si trasformino in contesti fuorvianti e contraddittori, all’interno dei quali la ricerca del rapporto tra bambini e natura si realizzi in pratiche di giardinaggio e parzialità etica. Il sincero superamento di queste criticità e la diffusione del modello educativo outdoor porterebbero grandi benefici su larga scala.
Ciò che risulta carente, agli occhi di un osservatore attento, è la reale attribuzione di importanza nei confronti di quella natura che stanno così tenacemente cercando di (ri)abitare dal punto di vista educativo. Sappiamo bene che all’interno degli ambienti naturali le opportunità educative, dirette e indirette, sono esponenzialmente maggiori rispetto a quelle delle aule colme di giocattoli in plastica, ma questo non basta. Non è sufficiente avere a disposizione un’area verde per poter sviluppare una didattica all’aperto, allo stesso modo per cui non è sufficiente avere a disposizione un palcoscenico per poter fare uno spettacolo teatrale, certo è un requisito fondamentale, ma è solo un luogo.
Quindi come si può valutare la bontà della proposta educativa?
E’ molto difficile dare una risposta, dato che molte delle realtà nascenti sono autogestite dal punto di vista educativo, senza supervisioni pedagogiche e nate straordinariamente “dal basso”. E’ una situazione che offre una rara ricchezza d’espressione nelle sue variegate forme (scuola alternativa, scuola verde, scuola nel bosco, asilo green, asilo nel bosco, o chissà quanti altri nomi verranno inventati) e molti vedono in questa ricchezza un punto cruciale da cui ripartire per pensare ad un percorso educativo differente.
Per poter valutare la bontà della proposta educativa si potrebbero analizzare alcune caratteristiche che contraddistinguerebbero delle buone pratiche di outdoor education o educazione in natura evitando fraintendimenti viziosi. Partiamo dal fatto che essa è una parte dell’apprendimento esperienziale, o experiencial education. Per una più chiara visione del tema rimandiamo all’articolo “Definire l’Experiencial Education?“.
Partiamo dal nome. È chiaro che un luogo chiamato “l’asilo nel mare” dovrebbe avere a disposizione una spiaggia e allo stesso modo una “scuola nel bosco” , un’area boschiva da poter raggiungere (pubblica, privata, ecc…) per poter svolgere le attività educative.
Oltre al nome deve essere chiaro il tipo di attività svolta. Facciamo un esempio esemplificativo: la “scuola in montagna” propone un percorso educativo basato sul rispetto e l’amore verso la natura ed organizza ogni settimana delle attività di gruppo simulando delle battute di caccia al cinghiale, avvalendosi della guida di esperti cacciatori locali.
Il significato contraddittorio della proposta è lampante, ma per chi non l’avesse colto invitiamo a riflettere sul valore educativo nel rapporto tra amore ed uccisione, che in alcuni casi eclatanti è sinonimo di possesso, come ad esempio nei delitti passionali. Per una più chiara visione del tema rimandiamo al libro scritto dalla psicologa e psicoterapeuta Annamaria Manzoni intitolato “Sulla cattiva strada”.
Strettamente legato a questo aspetto esiste un altro tema fondamentale che riguarda le scuole primarie ed è la capacità, del tutto personale ed implicita in ogni educatore, ditrovare all’interno dell’ambiente naturale degli spunti didattici utili per poter arricchire il percorso educativo. In altre parole l’esperienza educativa deve essere supportata da adulti naturalmente predisposti ad accogliere gli stimoli motivati che nascono dai bambini e trasformarli in contenuti didattici stimolanti (eventualmente coerenti con gli obiettivi ministeriali di riferimento). Solo in questo modo si potrà giungere ad un interesse sincero e ad un reale apprendimento. Andare al parco, per studiare con i libri, sarebbe sicuramente un salto qualitativo enorme per i bambini e per il loro vissuto scolastico, ma sarebbe eccessivo considerarlo un cambio di paradigma.
Di pari passo con la qualità della proposta educativa dovrebbe esserci un’etica appropriata. Esistono molte realtà educative, sopratutto extraeuropee, che riconoscono nelle attività di gruppo in contesti naturali un intrinseco valore educativo, a prescindere dalle attività svolte. Ci chiediamo dunque se, ad esempio, un’attività di pesca sportiva abbia un valore educativo nei confronti del rispetto degli esseri viventi, siano essi pesci o umani, oppure sia solo un mezzo per giungere ad uno scopo, quale potrebbe essere vivere esperienze di gruppo. E’ più importante educare al rispetto per le attività di gruppo o al rispetto per la vita? Qual è il valore educativo celato nell’uccisione volontaria di un essere vivente?
I riferimenti all’etica sono molteplici sopratutto nei riguardi del rapporto tra uomo e animali, come descrive molto bene Roberto Marchesini, fondatore della SIUA, la Scuola di Interazione tra Uomo e Animale.
Lasciamo dei link ad un post sul tema della caccia e uno relativo una recente intervista rilasciata in riferimento al caso dell’uccisione di uno Scimpanzé in uno zoo di Cincinnati.
Riguardo l’etica in contesti educativi a contatto con gli animali ci siamo posti questa domanda:
Qual è il rapporto educativo tra la diffusione di valori quali il rispetto dell’ambiente, della natura, della non-violenza, della mediazione dei conflitti, della maieutica, dei molteplici laboratori sulle emozioni tanto acclamati in questo periodo e il completo disinteresse verso l’empatia nei confronti del mondo animale, se non finalizzata ad una banale utilità?
L’empatia viene solitamente promossa nei confronti della violenza e della sopraffazione rispetto agli esseri umani, ma non sempre rispetto agli animali. L’empatia è un sentimento unico, non diversificato rispetto alla specie, è la capacità di immedesimarsi e provare compassione rispetto alla sofferenza di altri esseri viventi. E’ importante che questo concetto sia ben chiaro per chi accompagna i bambini in un percorso educativo.
Un’altra importante caratteristica riguarda la frequenza di esperienze che vengono proposte. Non è accettabile autodefinire la propria attività come appartenente all’ambito dell’outdoor education, senza prescindere dal rapporto giornaliero e duraturo di bambini con la natura e il territorio. Questo è necessario per poter sviluppare una didattica outdoor in senso universale, vivendo i luoghi del mondo, e particolare, nel vivere le singole attività con approcci non formali. Abbiamo già trattato questo argomento (link), in riferimento alla recente e crescente nascita di “asili nel bosco” in Italia. L’analogia proposta si riferiva ad alcuni principi cardine delle più accreditate scuole in natura, come la Forest School Association Inglese. Ecco un estratto:
- Forest School is a long-term process of frequent and regular sessions in a woodland or natural environment, rather than a one-off visit. Planning, adaptation, observations and reviewing are integral elements of Forest School.*
- La Scuola boschiva è un processo a lungo termine di frequenti e regolari sessioni in un bosco o in un ambiente naturale , anziché una visita una tantum . Pianificazione , adattamento , osservazioni e revisione sono elementi integranti della Scuola boschiva.
In conclusione, ogni realtà che voglia riconoscersi all’interno dell’outdoor education dovrebbe porsi delle domande profonde, riguardanti il proprio percorso specifico e valutando la qualità della propria proposta educativa.
Sarebbe bello se con il passare del tempo, nascessero delle indicazioni di carattere generale che identifichino le qualità irrinunciabili, grazie alle quali poter offrire delleautentiche esperienze educative all’aperto.
Fonte: Educazione pirata