È notizia recente che a bordo di un gommone un giovane migrante è stato freddato da uno scafista per essersi rifiutato di cedergli il suo cappellino da basket. Indigenza estrema? Follia?
Né l’una né l’altra riassumiamo noi. Non si è trattato di stato necessità visto che non si trattava di un caldo cappello da marinaio, utile per la traversata, ma non è nemmeno omicidio per futili motivi: è attaccamento estremo per un feticcio occidentale, ad un vero e proprio passaporto per un mondo idealizzato, di questa immigrazione dal mare, che non è né bellica (tra essi non incontreremo mai un libico che, pur vivendo veramente la guerra, rimane legato al proprio gruppo inter-familiare) né economica. È identitaria. O, se vogliamo, è economica in quanto dovrebbe sostenere non le necessità di vita, ma un vero e proprio cambio di identità. Di una gioventù che non si riconosce più nelle culture di appartenenza,travisata dalle pubblicità del modello occidentale-americano, dallo smartphone, dalle cuffie bianche, dal cappellino da baseball.
Dov’è la loro tradizione? Dove è il tanto sbandierato incontro tra culture? Vediamoli per strada! Più realisti del re, più preoccupati di apparire fashion di noi stessi autoctoni, con l’ortodossia stilistica dei convertiti al nuovo credo. Animata a partire dall’ignoranza o dalla complice venalità delle famiglie di origine. Gioventù che giustamente – giustamente! – si sentirà delusa e accumulerà acredine, anche se accettata. Non per deficit di integrazione, non perché non faranno strada, non per mancanza di sensibilità da parte nostra, ma perché il paradiso immaginato si rivelerà in tutto il suo deludente vuoto materiale. Si rivelerà a loro, che conservano nella memoria personale e collettiva, un ricordo vivo, temporalmente vicino (prima o seconda generazione): il ricordo nel loro mondo d’origine tradizionale, scambiato per i fashion cappellini da baseball.
Gianfranco Costanzo