Chiamare apartheid l’occupazione israeliana della Palestina non è pigrizia o provocazione, è basarsi sui fatti
Oltre ad essere approvata dai sudafricani che hanno combattuto contro l’apartheid, la definizione della situazione in Palestina/Israele è conforme alla sua definizione ai sensi del diritto internazionale. Questa settimana ho partecipato ad eventi organizzati per la “Settimana dell’apartheid israeliana”,che ogni anno “mira a promuovere consapevolezza sul continuo progetto israeliano di insediamento colonialista e sulle politiche di segregazione dei palestinesi”.
Per qualcuno, parlare di “apartheid israeliana” potrebbe sembrare solo uno fra gli slogan in voga tra gli attivisti. Altri vedono questo termine come inefficace, pigro, incendiario o addirittura antisemita.
Ma in realtà cosa si intende quando parliamo di apartheid israeliana?

In primis, principalmente, non si tratta di una precisa analogia col regime di apartheid sudafricano. Benchè sia vero che importanti veterani della lotta contro quel regime abbiano invocato tale comparazione. Nel 2002 ad esempio, Desmond Tutu dichiarò che un suo viaggio in Palestina gli ricordò “così tanto ciò che successe a noi neri in Sudafrica”. E nel 2009 Tutu stesso ha approvato un libro da me scritto intitolato “Apartheid israeliana: una guida per principianti”.
C’è una fecondo dibattito da tenere intorno a ciò che è successo in Sudafrica e ciò che sta accadendo oggi in Israele – Palestina. Ma tale confronto non è il modo in cui una persona esamina in via definitiva se parlare di apartheid israeliana sia appropriato o meno.
Questo perché l’apartheid è un crimine di diritto internazionale, indipendentemente da ciò che è avvenuto nel Sudafrica. Nel 1977 il I° Protocollo Addizionale della Convenzione di Ginevra (1949), ad esempio, cataloga l’apartheid come una “grave violazione” e “senza alcuna limitazione geografica”.
L’apartheid è inoltre considerata un “crimine contro l’umanità” nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, adottato nel 1998 – quattro anni dopo la fine formale dell’apartheid in Sudafrica.
Lo Statuto di Roma definisce l’apartheid come “ atti inumani … commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di sistematica oppressione e dominazione da parte di un gruppo razziale su di un altro gruppo o gruppi commesse con l’intenzione di mantenere quel regime”.
Le leggi e le pratiche israeliane si raccordano a tale definizione? Secondo quanto affermato dal Dipartimento di Stato USamericano i cittadini palestinesi affrontano “ discriminazione sociale e istituzionale”. Questo riguarda settori come immigrazione e vita familiare, terra e abitazioni.
Non c’è garanzia legale di uguaglianza, e i difensori dei diritti umani hanno riscontrato più di 50 leggi discriminatorie.
In Cisgiordania, lo stato israeliano ha creato e consolidato una rete di insediamenti illegali i cui residenti – cittadini israeliani – vivono in mezzo ai palestinesi soggetti a legge militare. Mentre gli insediamenti si espandono, le case palestinesi vengono demolite.
Recentemente, secondo quanto affermato da una ONG Israeliana B’ Tselem, le autorità israeliane hanno “aumentato gli sforzi per espellere le comunità palestinesi da ampie aree della Cisgiordania”-questa è pulizia etnica.
Dal 1° gennaio al 15 febbraio di quest’anno (2016), secondo i dati delle Nazioni Unite, le forze israeliane hanno distrutto o confiscato 283 case palestinesi e altre strutture, rimuovendone 404.
Come dichiarato da un alto funzionario delle Nazioni Unite, mentre la maggior parte di queste demolizioni “avvengono sul falso terreno legale che i palestinesi non posseggono permessi di costruzione”, le stesse cifre israeliane mostrano che “in ogni caso concesso solo 1.5 per cento delle richieste di autorizzazione palestinesi vengono approvate”.

Amnesty International ha descritto “il diniego formale di partecipare alla progettazione urbanistica di un’intera popolazione, insieme all’istituzione di un piano di progettazione parallelo per gli insediamenti israeliani come “unico al mondo“ in quanto discrimina esplicitamente in favore di un’altra popolazione la cui massiva presenza nei territori in questione vìola apertamente il diritto internazionale”.
Nella striscia di Gaza, i palestinesi continuano a soffrire sotto un embargo Israeliano che costituisce una punizione collettiva illegale. Quando Israele non conduce raccapriccianti attacchi su larga scala nel territorio recintato, si verificano attacchi di routine ad agricoltori e pescatori.
La maggior parte dei palestinesi a Gaza in realtà sono rifugiati, le cui terre sono spesso a pochi km lontane, dentro il territorio di Israele prima del 1967. Questo fa ricordare il fatto che la “maggioranza ebraica” di Israele fu raggiunta solamente tramite l’espulsione dei palestinesi, ed è mantenuta tramite la loro continua esclusione.
Questo è solo un esempio, ma il punto principale qui è che i crimini israeliani non sono “aberrazioni”. Non sono azioni di qualche generale fanatico o di un particolare governo di destra. Stiamo parlando degli aspetti principali della legislazione, delle politiche mantenute dallo stato per decenni.
Stiamo parlando dunque, come definito dallo Statuto di Roma di “atti inumani … commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato”. Questo è il motivo per cui il Comitato ONU per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale ha esortato Israele ha sradicare tutte le pratiche che violano il divieto di “segregazione razziale e apartheid”.
Respingere tutto ciò perché “Israele non è il Sudafrica” significa eludere il punto principale, così come insabbiare le discriminazioni sistematiche semplicemente perché c’è un “arabo” nella Corte suprema israeliana ( l’unico su 66 giudici passati e presenti) è baratto ingannoso.
La realtà è chiara. E’ l’apartheid israeliana che dovrebbe offendere, non le campagne (o il boicottaggio) a sostegno dei diritti fondamentali dei palestinesi.
Per concessione di Tlaxcala
Fonte: http://ind.pn/1WL6wGm
Data dell’articolo originale: 24/02/2016
URL dell’articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=19280