Ottima traduzione appena ricevuta da Claudio. Bellissimo reportage che Die Zeit dedica allo straordinario successo elettorale di AfD a Bitterfeld, in Sachsen-Anhalt, e in molte altre zone dell’Est. A Bitterfeld alle regionali del 2016 AfD ha superato il 31%: un risultato che non puo’ essere spiegato solo con la rabbia per l’ondata di migranti. Grazie Claudio per l’articolo! Da Zeit.de

A Bitterfeld, città della working class, l’AfD è il primo partito. I loro elettori non hanno problemi solo con gli immigrati, bensì anche con il capitalismo.
Quando il deputato dell’Afd Daniel Roi vuole spiegare perché la gente della sua circoscrizione elettorale è così arrabbiata non va al centro dei rifugiati. Va al lago. L’acqua riluce oscura, sulla riva ci sono le panchine per il picnic e nei lotti dei camper permanenti svernano le canoe. Lì accanto campeggia la réclame del circolo nautico: “la vela non deve essere costosa”.
Goitzsche è il nome del lago che è sito all’estremità di Bitterfeld-Wolfen, una città nella parte sud-orientale della Sassonia-Anhalt. Qui in estate le persone stendono i loro teli, fanno il bagno, vanno in canoa e praticano lo sci d’acqua.
È un mercoledì di dicembre, il bavero del cappotto di Roi è sollevato verso l’alto e la barba è accuratamente rasata. Lui ha 29 anni ed è uno dei pochi giovani che qui non è solamente nato ma anche deciso di restarci. A dieci anni entra nel corpo dei volontari dei vigili del fuoco. A diciotto avvia la sua prima iniziativa civica. A 25 diventa membro dell’AfD. Alle elezioni regionali del marzo 2016 riceve il 31% dei voti, primo fra i candidati del suo collegio elettorale. In tutto ciò il lago ha svolto un ruolo importante.
Prima, quando Roi era un bambino e il muro non era ancora stato abbattuto, qui rimbombavano le scavatrici che lavoravano in una delle aree minerarie ricche di lignite più estese della DDR. In seguito al crollo della Germania Est la zona si deindustrializzò e dalla cava a cielo aperto fu ricavato un lago artificiale. Il suolo venne bonificato, il cratere fu riempito d’acqua e lungo i pendii vennero piantati gli alberi. In seguito furono tracciati dei percorsi pedonali e furono costruiti parcheggi. Il tutto richiese più di 200 milioni di euro tra incentivi allo sviluppo federali, regionali, europei e soldi dei contribuenti. Tre anni fa però il comune di Bitterfeld-Wolfen ha venduto larga parte del lago ad una società privata per soli 2,9 milioni di euro. Il nome della compagnia è “Blausee” (n.d.t. “lago blu”) ed è specializzata nella privatizzazione di patrimonio naturalistico, avendo già acquistato dallo Stato diversi laghi. Il proprietario è l’imprenditore farmaceutico multimiliardario Adolf Merckle.
“La collettività ha pagato affinché il lago fosse abbellito” dice Roi “e chi ne ha tratto giovamento?” Punta il dito verso un tratto recintato della riva. Là, dietro delle canne palustri alte quanto un uomo, ci sono due case galleggianti con i tetti a terrazza costruite in vetro e legno chiaro e con un accesso esclusivo al lago. In una rimessa per le barche si trova uno yacht a motore cromato sollevato con il cric. Sulla recinzione è affisso il cartello “Proprietà privata, vietato l’accesso”. Un po’ più a nord, su un’incantevole penisoletta, dei cingolati spianano la riva: direttamente a ridosso dello specchio d’acqua stanno costruendo un complesso residenziale. “Miliardari” dice Roi e la parola risuona come se fosse un’ingiuria.
Alle elezioni in Sassonia-Anhalt Bitterfeld-Wolfen è il Comune dove l’AfD ha preso più voti. Nei giorni successivi al voto sono venuti giornalisti da Amburgo, da Berlino, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. Volevano sapere i motivi che avevano spinto così tanta gente a votare l’AfD. Hanno ripreso la piazza del mercato, hanno mostrato persone che indossavano pantaloni da jogging grigi, che si ingozzavano di grassi würstel e che apostrofavano come “negri” gli immigrati e come “criminali” i politici. Hanno documentato la realtà, ma hanno raccontato solo mezza verità.
È da parecchio tempo che il successo dell’AfD non si basa più soltanto sull’odio nei confronti degli stranieri o sulla rabbia nei confronti della cancelliera Merkel; sono riusciti – più di ogni altro partito – ad approfittare dello strappo sociale che attanaglia la Germania, quello tra ricchi e poveri, tra città e campagna, tra l’élite globalizzata e il piccolo uomo di provincia. L’indignazione dei politici come Roi è generata tanto dall’accoglienza verso i rifugiati quanto dai trucchetti contabili delle grandi multinazionali, dalla privatizzazione di beni pubblici e dalle aziende che prima ricevono sovvenzioni dallo Stato per milioni di euro e poi delocalizzano all’estero.
Il popolo umile contro il capitale globale: con questo slogan la destra sta racimolando i voti di quanti – in passato – votavano a sinistra, un fenomeno che si registra in tutta l’Europa: nelle aree deindustrializzate dell’Inghilterra settentrionale, nelle campagne della Polonia, nella Germania orientale e nel sud della Francia. Marine Le Pen, leader del Front National, si presenta come la paladina della classe lavoratrice francese, il quasi presidente austriaco Norbert Hofer dell’FPÖ viene visto come il difensore del numero crescente di lavoratori a rischio di esclusione sociale. Nella regione della Ruhr, un tempo feudo rosso, vista l’alta densità di acciaierie e miniere di carbone, l’AfD sta mettendo su un’organizzazione per i lavoratori con l’intento di strappare voti all’SPD e alla Linke.
A Bitterfeld tutto ciò non è più necessario. Qui l’SPD durante l’ultima tornata elettorale ha ottenuto solo l’8% dei voti. La Linke è scesa al 13%, che per gli standard dell’ex Germania Est rappresenta un pessimo risultato. E, sebbene nelle recenti votazioni per il sindaco non abbia vinto l’AfD, bensì il candidato della CDU sostenuto da un’ampia coalizione, alle elezioni per il Parlamento federale di settembre l’AfD è riuscita a superare tutti i singoli grandi partiti.
“Che ne è di quelli che dal successo non ottengono nulla?”
Daniel Roi monta nella sua Skoda grigia. Nel portaoggetti della portiera c’è un volantino dell’AfD, un depliant per la circoscrizione elettorale: la parola “profugo” non compare nemmeno una volta, si parla però di argomenti come i pensionati in difficoltà, i tagli ai vigili del fuoco, i quartieri operai in degrado e le scuole che vengono chiuse. Roi dichiara di avere paura per il proprio Paese. Quando spiega perché non fa riferimento tanto ad una questione d’identità quanto al problema della ridistribuzione; quando cita “quelli di sopra” intende politici influenti ma anche potenti multinazionali, Merkel&Merckle insomma. “Quelli che stanno in alto” dice Roi “sono quelli che si sono presi il Goitzsche”.
Roi preme sull’acceleratore. Si lascia il lago alle spalle e si dirige verso la zona industriale, là dove ai tempi della DDR l’impianto chimico di Bitterfeld e Wolfen avvelenava l’aria; dopo la riunificazione grandi multinazionali vi hanno costruito i propri impianti di produzione. Roi passa davanti alla fabbrica di colore bianco del colosso farmaceutico Bayer che a Bitterfeld produce le compresse dell’aspirina. Poi è la volta dell’impianto giallo-grigio dell’Heraeus che qui produce vetro al quarzo, cui fa seguito il forno di fusione della Guardian Industries, una multinazionale americana che fabbrica lastre di vetro.
Osservata da qui Bitterfeld può sembrare un piccolo miracolo economico. Dove un tempo c’erano fabbriche decrepite adesso si produce secondo standard ambientali elevati. Là dove decine di migliaia di persone persero il proprio lavoro in seguito alla dissoluzione della DDR il tasso di disoccupazione è nel frattempo nuovamente calato: da oltre il 20% nel 2003 a meno dell’8% nel 2016. Nel reparto chimico, il settore economico più importante della regione, gli stipendi continuano a salire. “L’economia mette il turbo” dice il sindaco della città, “la via del successo è spianata” fa eco il presidente dell’agenzia locale per l’incentivazione dell’economia. Il deputato Afd Daniel Roi invece si interroga: “Che ne è di coloro che dal successo non ottengono nulla?”.
Lungo la strada si snoda un imponente sistema di tubazioni, un reticolato di oleodotti multicolori trasportano idrogeno e cloro gassoso da una fabbrica all’altra: attraversano la città come un sistema vascolare e riforniscono le fabbriche di prodotti chimici, mentre queste ultime dovrebbero provvedere a rifornire la città di posti di lavoro. Quantomeno questo era il piano.
Molti dipendenti lautamente retribuiti dalla Bayer o dalla Guardian non vivono però a Bitterfeld ma a Halle o a Lipsia, ed è lì che spendono i loro guadagni. Anche il tasso di disoccupazione non appare più così roseo se osservato più da vicino: molte persone infatti sono andate via o in pensione. Pertanto non è facile stabilire se sia più la città a trarre profitto dalle multinazionali o viceversa. “La Bayer realizza alti profitti ma versa pochissime tasse” rivela Kay-Uwe Ziegler, un collega di partito di Daniel Roi, anch’egli di Bitterfed. Né la Bayer né la città hanno voglia di esprimersi su questo punto: segreto fiscale. Ma un consigliere comunale della Linke afferma che la Bayer effettivamente non pagherebbe cifre esorbitanti in tasse,un “segreto di Pulcinella” a suo giudizio. Preferisce non dire altro, non vuole inimicarsi un colosso industriale tanto potente.
Sia ben chiaro: non è che siccome le statistiche sulla disoccupazione non sono negative tutti qui se la passino bene. Nell’autunno 2016 l’istituto demoscopico di Allensbach ha interrogato gli elettori. Il 38% dei sostenitori dell’AfD riteneva di far parte “ della schiera di coloro che in Germania sono rimasti indietro mentre agli altri va sempre meglio”, la percentuale più alta fra tutti i partiti.
In un isolato vicino alla zona industriale, in un piccolo appartamento con il pavimento in laminato, abita Diana Riemann. Sul bracciolo del sofà c’è un pupazzo di Arlecchino, nell’armadio a parete un angelo di porcellana. Sul tavolino in vetro nel salotto, tra la guida TV e un numero di Wochenspiegel, è riposta una brochure azzurra: è il programma dell’AfD. Alle politiche di settembre 2017 Riemann vuole andare a votare; per la prima volta da quasi venti anni.
Diana Riemann in realtà si chiama in un altro modo, ma lei non vuole essere riconosciuta, teme di perdere il lavoro. Riemann non lavora alla Bayer, dove gli stipendi sono alti e c’è un autorevole consiglio di fabbrica. Lavora per la Soex, un’azienda che ricicla vestiti usati. 700 lavoratori smistano cappotti, pantaloni, t-shirt e scarpe. In tre turni, giorno e notte. Lei trascorre otto ore al giorno immersa tra gli stridii dei carrelli elevatori e il frastuono delle presse, continuamente chinata. Sul tavolo ci sono i monitor che controllano se i lavoratori svolgono correttamente le loro mansioni, a seconda del reparto si arriva fino a due tonnellate di vestiti al giorno.
Gli abiti che Riemann smista puzzano. L’aria che respira è stantia. Il lavoro che svolge è monotono. “Piglia, piglia, piglia” dice lei, aprendo e chiudendo i pugni; il suo dito medio è storto. “Dito a scatto” e lo fa balzare in avanti. Nervi infiammati e mal di schiena, questo è il prezzo da pagare per il suo posto di lavoro. Quando ha il turno mattutino si alza alle quattro meno dieci. Quando torna a casa è distrutta. Alle 18:45 guarda il telegiornale RTL. Non va a letto più tardi delle 20:30.
Il salario della Riemann è leggermente più alto di quello minimo. Non ha diritto alle ferie pagate e alla tredicesima. Le spettano tre settimane di ferie ma non decide lei quando prenderle. Alla Soex la gran parte dei dipendenti ricevono le ferie a luglio, quando le macchine sono in manutenzione: luglio però è alta stagione e farsi una vacanza è quasi ovunque troppo costoso.
Riemann dice che se trovasse qualcosa di meglio, magari un’occupazione in un’attività commerciale, come cassiera da KiK o da Edeka, cambierebbe subito lavoro. Che le aziende cercano manodopera, che il tasso di disoccupazione scende e che il gettito fiscale è in aumento, queste sono tutte cose che Riemann ha già sentito. Ma non ne sente gli effetti. La sua condizione nel 2016 è la stessa del 2003.
All’epoca in Sassonia-Anhalt una persona su cinque era disoccupata e chi aveva un lavoro aveva la sensazione di essere facilmente rimpiazzabile. Era il tempo della disoccupazione di massa, dei tagli e delle riforme “Agenda 2010”. Il governo a guida socialdemocratica ridusse i sussidi per la disoccupazione, diminuì le tutele sui licenziamenti e cominciò a controllare meticolosamente i bisogni e le necessità di coloro che richiedevano aiuti sociali. Tutto ciò mirava a rinforzare l’economia e a preparare il Paese alla globalizzazione e al cambiamento demografico. Alla fine queste riforme sarebbero dovute tornare utili a tutti.
La CDU pretese tagli ancora più radicali. Nel 2003 tenne un congresso di partito non lontano da Bitterfeld. Sul palco c’era una signora in tailleur. Con voce ferma richiese “un abbassamento del costo del lavoro”. Propose un patto ai lavoratori come Diana Riemann: promise loro “benessere e sicurezza” reclamando in cambio “flessibilità e rendimento”. Questa donna di nome faceva Angela Merkel e quel congresso tenutosi a Lipsia viene oggi ricordato come la cesura neoliberista nella storia della CDU. Dimostrarsi flessibili, rafforzare il senso di autoresponsabilità, stringere la cinghia. Questo era il leitmotiv dell’anno zero, l’imperativo della recessione.
Dodici anni dopo, nell’agosto del 2015, la signora in tailleur è nuovamente davanti alle telecamere. Adesso è diventata Cancelliera. Era il tempo in cui centinaia di migliaia di profughi giunsero in Germania attraverso i Balcani in cerca di rifugio; in larga parte persone che inizialmente vivrebbero svolgendo lavoretti semplici o richiedendo sussidi sociali. La Merkel sembra più benevola del solito, come trasformata. Parla di empatia, chiede ai Tedeschi di non farsi guidare dai pregiudizi e dalla “freddezza”, dando il benvenuto ai migranti. Disse: “la nostra economia è florida, il nostro mercato del lavoro è solido ed è certamente in grado di assorbire nuovi lavoratori”. Poi aggiunse quello che Diana Riemann ancora oggi non è riuscita a capire. Disse: “ce la facciamo”.
Poco tempo dopo nei capannoni della Soex c’erano i primi migranti che smistavano vestiti usati. La Soex è stata una delle poche fabbriche della zona ad offrire lavoro soprattutto agli immigrati: i giornali locali hanno riportato la notizia con toni encomiastici. Diana Riemann tira fuori il suo Smartphone e mostra una foto della fabbrica: una stanza disadorna con un tappeto rosso a quadri, sul pavimento c’è un Corano. Ci racconta che di recente la dirigenza ha fatto allestire una sala per la preghiera per i rifugiati. “Se io dicessi: vado un attimo a pregare perderei il mio lavoro. Oso a malapena andare in bagno, poiché in contrasto con le norme di lavoro”. Noi abbiamo chiesto all’addetto stampa della Soex se è vero che le condizioni dei lavoratori Tedeschi siano peggiori di quelle degli immigrati ma la risposta è stata un secco “no comment”.
A detta della Riemann agli immigrati vengono concessi permessi a lavoro nel caso in cui debbano recarsi al Sozialamto all’Ausländerbehörde(n.d.t.rispettivamente “ufficio assistenza sociale” e “ufficio immigrazione”). Anche lei una volta ha avuto la necessità di rivolgersi all’ufficio preposto per richiedere il sussidio per la casa. “A me però non è stato concesso di andarci durante l’orario di lavoro” ci rivela. In quel caso la Riemann aveva un urgente bisogno del sussidio ma non è riuscita a ottenerlo, per via di pochi euro di troppo nella busta paga.
Negli ultimi anni durante i dibattiti di economia e politica si è parlato spesso e quasi unicamente del fatto che in Germania il personale qualificato sarebbe sommerso di offerte di lavoro e che la priorità fondamentale delle aziende sarebbe quella di offrire ai propri dipendenti un equilibrio armonioso tra lavoro e vita privata (work-life balance). Di conseguenza, le uniche questioni ancora aperte vertono sul maggiore accesso ai ruoli dirigenziali per le donne e sulla possibilità di includere gli immigrati nel mercato del lavoro. Raramente sono stati presi in considerazione coloro di cui ci si dimentica facilmente per via della congiuntura economica positiva,ossia tutti quelli che, pur avendo un lavoro, risultano poveri, che anche nel 2016 devono aver paura di perdere il lavoro, che non vivono nella ricca e prospera Germania, bensì in uno di quei Comuni indebitati fino al collo. Queste persone sono state zitte per anni. Ora però alcuni di loro vedono nell’AfD un partito che possa dar loro una voce, mentre nei rifugiati vedono una minoranza che è riuscita a sottrarre la compassione di una Cancelliera dimostratasi fino ad allora poco sensibile alle loro istanze sociali. Ed è da qui che che scaturisce il loro risentimento.
Diana Riemann va in cucina a prendere il caffè. Quando torna dice: “a quelle bestie un altro po’ il Sozialamtpulisce pure il culo.”
A chi?
“A quelle bestie”, fa una pausa. “Agli stranieri”.
Non sono forse esseri umani?
“No”, poi ci offre del caffè. “Volete un altro bignè?”
Quello che è accaduto in quel mercoledì di dicembre al tavolo della Riemann si ripete quotidianamente mille altre volte. Nei commenti dei giornali online e sui profili Facebook dei politici; anche su quello del deputato di AfD Daniel Roi, dove lui posta le proprie foto personali: davanti al Parlamento regionale del Magdeburgo, assieme ai volontari dei vigili del fuoco o a una manifestazione dei sindacati. Qualche volta condivide articoli dei giornali, di solito riguardanti terroristi e criminali stranieri, come ad esempio l’attentatore tunisino che ha fatto irruzione in un mercatino di Natale presso la Gedächtniskirchedi Berlino oppure i giovani rifugiati siriani che avrebbero dato fuoco ad un senzatetto. Gli amici di Roi su Facebook scrivono commenti di questo tipo:
“L’Islam e tutto ciò che gli gravita intorno sono ripugnanti.”
“I topi non stanno solo nelle fogne, sono anche in mezzo a noi.”
“Non si può fare di tutta l’erba un fascio ma con l’influenza aviaria verranno spazzati via tutti quanti. Perché? Meglio così!”
Roi non rimuove i commenti dalla propria pagina, dice che non ha tempo per leggerli tutti uno per uno.
Se proviamo a chiedere a Diana Riemann da dove proviene l’odio che ha manifestato quel pomeriggio, lei ci parla della delusione e delle privazioni che l’hanno consumata ben prima che i profughi mettessero piede nella fabbrica della Soex.
Il patto proposto da Angela Merkel al congresso di Lipsia, la formula magica neoliberista, secondo la quale le buone prestazioni vengono sempre ricompensate con lauti guadagni, per lei non funziona: ha imparato un mestiere, si è dimostrata flessibile ogni volta che era necessario, si è sempre impegnata. Ma in cambio non ha ricevuto né benessere né sicurezza. Mentre gli stipendi di parecchi lavoratori come lei sono fermi al palo da anni, altri hanno ricevuto per molto tempo sempre di più anche quando commettevano errori: i banchieri, i cui istituti sono stati sussidiati con i miliardi dello Stato o i manager delle multinazionali che frodano i clienti e ciononostante portano a casa i bonus.
Adesso che Merkel ha “invitato” i profughi – così si esprime la Riemann – lei si sente doppiamente tradita. Dice di aver paura di perdere il proprio lavoro per poi dover concorrere con persone meno istruite di lei per i posti rimanenti. Racconta di aver notato poco tempo fa una un avviso nella bacheca della Soex: la ditta sta costruendo una fabbrica ad Abu Dabi. Da allora la Riemann è convinta che lo stabilimento a Bitterfeld verrà presto chiuso e non è l’unica a nutrire tale timore.
Nell’estate del 2016, pochi mesi dopo la vittoria elettorale di Afd a Bitterfeld, alcuni sociologi dell’Università di Oxford condussero un sondaggio su incarico della fondazione Bertelsmann. Il loro obiettivo era di ricercare i motivi che in Europa spingono così tante persone a votare i partiti nazionalisti di estrema destra. Il risultato è stato dappertutto lo stesso. I sostenitori della tedesca AfD e dell’austriaco FPÖ, così come i britannici che votano Ukip e i francesi che supportano il Front National, hanno un sentimento comune: la paura della globalizzazione. In Germania il 78% di coloro che votano AfD hanno ammesso tale timore.
Quando le multinazionali straniere giunsero a Bitterfeld Helmut Kohl promise “paesaggi in fiore”1; quando i rifugiati si insediarono a Bitterfeld Angela Merkel promise che la Germania ce l’avrebbe fatta. “Kohl ci ha presi in giro e la Merkel ha dimenticato da dove viene” dice la Riemann. “Una volta lei era una di noi. Dovrebbe sapere che dalle nostre parti ci sono ancora tanti problemi per i quali non si trova una soluzione.”
A Bitterfeld le esigenze dei cittadini vengono bloccate sempre con la stessa frase: non ci sono soldi. Non ce ne sono per le scuole e per gli ospizi, né per le strade dissestate o per i parchi giochi. “Poi sento: per gli immigrati ci sono miliardi a disposizione, questo però fa a pugni con la realtà”, dice la Riemann.
Bitterfeld-Wolfen è il comune più indebitato della Sassonia-Anhalt, un esempio estremo per un problema assai diffuso: mentre l’economia tedesca nel complesso prospera radiosa, alcuni singoli Comuni se la passano decisamente male. E non solo nella Germania orientale, anche nella zona della Ruhr, in Renania Palatinato o in Saarland. Quanto questi Comuni si ritrovino a dover mendicare disperatamente la benevolenza delle multinazionali, e quanto siano impotenti di fronte alle leggi della globalizzazione, lo si può osservare a Bitterfeld-Wolfen.
In un campo alla periferia della città c’è un sito industriale con capannoni grandi quanto campi da calcio e torri in vetro e cemento armato. L’ingresso principale rimane aperto, la portineria è vuota. Nel parcheggio è cresciuta l’erba. Dei cartelloni fiancheggiano la strada: “impianto di produzione affittasi”.
Fino a pochi anni fa qui germogliava la speranza della Germania orientale: un enorme complesso industriale dove migliaia di lavoratori costruivano pannelli solari che venivano esportati in tutto il mondo. Quest’area veniva chiamata dagli abitanti di Bitterfeld “solar valley”; in quel periodo si aveva l’impressione che questa regione ce l’avesse davvero fatta. Le aziende che producevano qui avevano nomi che rievocavano il futuro, come Q-Cells, Sovello, Solibro e Calixo. La città aveva fatto loro una corte spietata attraverso basse imposte, forza lavoro altamente flessibile, finanziamenti multimilionari e uno svincolo autostradale costruito appositamente per il complesso industriale. Anche il governo federale fece la sua parte: approvò delle sovvenzioni per la produzione di energia solare affinché la richiesta di panelli solari crescesse. Le imprese arrivarono e portarono con sé migliaia di posti di lavoro.
Non passò molto tempo prima che delle multinazionali cinesi cominciarono a produrre – a prezzo più basso – lo stesso tipo di pannelli solari al punto da fagocitare le aziende di Bitterfeld e delocalizzare il lavoro. Migliaia di persone furono licenziate. “Fu un taglio netto” dice Daniel Roi, il quale ritiene che il discorso delle multinazionali non sia poi così dissimile da quello riguardante il lago Goitzsche: lo Stato sborsa milioni con l’intento di attirare i grandi capitali. Alla fine però alla collettività non spetta niente. “Il sistema capitalistico, che ormai non conosce più limiti, è fallito” dice lui.
 
Oggi gli abitanti di Bitterfeld hanno imparato a diffidare delle benedizioni della globalizzazione, così come nutrono parecchi dubbi circa il reale potere dello Stato: perché il governo non si tutela di fronte alle multinazionali cinesi? Perché continua a sovvenzionare la vendita di pannelli solari che non sono prodotti dai lavoratori tedeschi, bensì principalmente da quelli asiatici? La Merkel non aveva promesso che si sarebbe fatta carico del benessere e della sicurezza delle persone, a patto che queste si dimostrassero flessibili e diligenti?
Da allora gli abitanti di Bitterfeld si sono adeguati alle esigenze delle imprese, impostando la loro vita secondo il ritmo delle fabbriche. La società attuale che promuove lo sviluppo economico propaganda tra la popolazione la “dipendenza dai prodotti chimici” e ”l’assuefazione al regime su tre turni di lavoro”. La città ha chiamato le proprie strade con i nomi delle aziende e dei loro prodotti: Heraeusstraße, Guardianstraße, Stickstoffstraße (“via dell’azoto” n.d.t.), Farbstoffstraße (“via del colorante” n.d.t.). Ha perfino rinunciato a sé stessa pur di attirare le imprese. Nel 2007 vi fu una riforma distrettuale e Bitterfeld fu accorpata – contro la volontà dei cittadini – a Wolfen. Si fusero per poter essere più appetibili dal punto di vista commerciale. Si avvicinarono per mascherare il reciproco invecchiamento e disfacimento. Da allora molti centri della Germania orientale hanno nei loro nomi una caratteristica che prima si riscontrava solo nella zona occidentale: il trattino, come per esempio Dessau-Roßlau o, se preferite, Bitterfeld-Wolfen.
Durante gli ultimi anni ci sono state sempre nuove multinazionali che portavano posti di lavoro a Bitterfeld, ma questi lavori non erano mai sicuri. Ci sono stati politici locali che hanno fatto di tutto per attirare i colossi industriali. Ma ciò che si è rivelato al di là delle loro possibilità è stata la capacità di farli restare qui.
L’Afd non ha alcuna soluzione per tali problemi. Il suo manifesto economico è scarno e impreciso, in alcuni punti richiama la lotta di classe, altrove sembra aderire sfrenatamente ai dettami del libero mercato.Su una cosa sono però molto bravi: sanno ascoltare le persone come Diana Riemann, conoscono i loro bisogni, canalizzano la loro rabbia, di solito nella direzione più semplice di tutte, verso il basso, contro i migranti, contro coloro che hanno ancora meno di loro.
Se chiedete a Diana Riemann dell’SPD o della Linke, vi dirà che ha visto i loro rappresentanti in TV e che non capisce il loro linguaggio. Se invece le chiedete dell’AfD vi risponderà Daniel Roi. Lo ha conosciuto durante una manifestazione, protestavano insieme contro la chiusura di una scuola materna. Lei gli parlò dei suoi problemi e lui le diede il suo numero di cellulare.
Roi parla la sua stessa lingua, quel ruvido dialetto tanto diffuso nella zona meridionale della Sassonia-Anhalt. Lui è nato qui, a Wolfen-Nord, una sorta di colonia operaia in cui alla fine degli anni ’80 vivevano all’incirca 35.000 persone. Oggigiorno 8.000 di loro vivono ancora li’, in maggioranza pensionati. Con la sua Škoda passa davanti ai prefabbricati, a Kaufland(n.d.t. centro commerciale) e Nettomarkt (n.d.t. supermercato), poi scende dalla macchina e si incammina attraverso i canyon urbani. Donne anziane trascinano il loro deambulatore sull’asfalto squarciato, accanto ad un enorme cumulo di macerie le scavatrici sbriciolano il calcestruzzo lavato dei prefabbricati sventrati. Gli operai trascinano fuori le interiora degli edifici: tubi degli impianti di riscaldamento, tazze del gabinetto, pannelli isolanti. Un paio di anni fa la Società per l’edilizia residenziale della città innalzò i prezzi degli affitti, nonostante il quartiere fosse decrepito. In seguito a ciò alcuni cittadini fondarono un’iniziativa a difesa degli affittuari; il loro presidente siede oggi nel consiglio esecutivo dell’AfD.
Più tardi Roi si reca nel centro di Bitterfeld. I proprietari di alcuni piccoli negozi hanno fondato un comitato a tutela del centro città. Si lamentano del fatto che in centro i negozi siano vuoti e che intorno a Bitterfeld stiano spuntando grandi centri commerciali. Protestano contro le imposte che sono obbligati a pagare, mentre in Germania le catene di moda internazionali pagano pochissime tasse. Si scagliano contro i colossi on-line come Amazon che danneggiano i loro affari. Il presidente del comitato il prossimo anno vuole candidarsi al parlamento; con AfD.
Roi gironzola nella piazza del mercato che si tiene qui ogni mercoledì. Vi si trova formaggio olandese e panini con würstel della Turingia per 1,80 €. Lì in mezzo, vicino alla teca del pollame, un partito ha allestito un bancone, l’unico lungo e largo. È l’AfD.
1 N.d.t. L’espressione blühende Landschaften fu usata dall’allora Cancelliere Helmut Kohl in due circostanze (1990 e 1991) con riferimento alle prospettive economiche dei territori dell’ex Germania Est
Commenta su Facebook