Così come l’11 settembre del 2001, la guerra in Iraq del 2003 e la crisi economico finanziaria del 2008 hanno assestato un duro colpo all’ordine internazionale post 1989, l’attuale guerra commerciale, iniziata formalmente lo scorso 6 luglio tra Stati Uniti e Cina, sta rappresentando la più grande guerra commerciale nella storia dell’economia e dell’umanità, dalle cui conseguenze lo stesso commercio globale potrebbe esser travolto. Venerdì 6 luglio, gli Stati Uniti hanno iniziato a imporre tasse punitive del 25% su un totale di 34 miliardi di dollari di merci importate dalla Cina. In risposta, lo stesso giorno, la Cina ha annunciato l’imposizione di tariffe su 34 miliardi di prodotti statunitensi. In merito, il Ministero del Commercio cinese ha rilevato che la Cina è stata costretta ad agire in questo modo per difendere gli interessi fondamentali del paese e della popolazione.

Sebbene i mercati continuino a sperare in successivi accordi per fermare l’escalation, disinnescare quella che Pechino ritiene la più grande guerra commerciale della storia potrebbe richiedere passi più urgenti, rispetto a quanto fatto sino ad oggi da parte di Unione Europea, Giappone, Canada e altri paesi. La guerra dei dazi non solo sembra destinata a far calare i commerci e a deprimere la crescita, ma rischia di compromettere in modo irreversibile il sistema economico internazionale in vigore dalla seconda guerra mondiale. In una guerra commerciale non vi sono infatti vincitori ed è quindi inevitabile che nel combattere la guerra commerciale delle più grandi dimensioni della storia dell’umanità, sia Stati Uniti che Cina dovranno pagare un prezzo e sopportare le perdite.

Per gli USA, i danni maggiori si riscontreranno nei seguenti settori: perdita dell’ampio spazio di cooperazione futura tra Cina e Usa; entrambe le parti saranno danneggiate dalla perdita dei grandi vantaggi portati dalla suddivisione della catena industriale a livello globale; il mondo perderà l’importante opportunità storica della ripresa economica. Inoltre, se le tensioni commerciali tra Cina e Usa non saranno risolte in modo appropriato, si assisterà ad un crollo del 40% del commercio mondiale, l’ordine e i regolamenti internazionali creati in molti anni di lavoro perderanno efficacia con un conseguente stato di caos dell’economia mondiale e, l’aspetto più importante, gli Usa perderanno la possibilità di enormi guadagni sul mercato cinese.

Anche la Cina dovrà pagare un prezzo elevato nella contrapposizione commerciale con gli Usa, ma proprio l’enorme mercato di consumo fatto da circa 1,4 miliardi di persone può consentirle, anche nei momenti più difficili, di attuare una circolazione interna. Al contempo, il 91% della crescita economica cinese deriva dalla domanda interna e il 60% della domanda interna è guidato dal consumo. La domanda di consumo è in costante aggiornamento e il mercato è pieno di vitalità. Ancora più importante, il numero delle aziende innovative in Cina è al secondo posto al mondo e lo sviluppo guidato dall’innovazione ha reso l’economia cinese più resistente. Inoltre, la Cina ha ampliato costantemente la propria apertura in base a una strategia consolidata, il che ha rafforzato notevolmente la fiducia del mondo esterno. La lotta contro la guerra commerciale degli Usa è per la Cina una “lotta di destino nazionale”. Nel far fronte a questa “lotta di destino nazionale”, i cinesi sono disposti a sopportare perdite temporanee nella vita personale, condividere un momento difficile con un governo responsabile, unirsi in uno sforzo concertato e mantenere la situazione generale a lungo termine di sviluppo economico sostenuto e di ringiovanimento nazionale.

Il peso di questa guerra commerciale non ricade, tuttavia, soltanto su sulla Cina e sugli Stati Uniti, tanto che gli altri paesi non possono considerarsi “passanti o “spettatori”, ma protagonisti. Secondo le statistiche, fino all’8 luglio, le misure adottate dai vari paesi nei confronti degli Stati Uniti hanno interessato 75 miliardi di dollari di prodotti statunitensi. Di questi, 34 miliardi di dollari sono riconducibili alle contromisure applicate dalla Cina. È un po’ come se fosse una “guerra tra due paesi”. Tuttavia, un rapporto di ricerca della Syracuse University mostra che l’87% dei computer e dei prodotti elettronici “made in China” soggetti alle tariffe degli Stati Uniti sono prodotti da società multinazionali che operano in Cina, soltanto il 13% è riconducibile ad aziende cinesi. Eppure prima della Cina, diversi Paesi interessati avevano già attuato contromisure: il Canada aveva imposto tariffe su prodotti d’importazione statunitensi per un valore di circa 12 miliardi e 600 milioni di dollari e il Messico aveva lanciato un secondo giro di contrattacchi, imponendo dazi doganali su 3 miliardi di merci Usa.

Durante una conferenza stampa congiunta tenuta con il ministro degli Esteri austriaco il 5 luglio, il ministro degli Esteri cinese, nonché membro del Consiglio di Stato, Wang Yi, ha affermato che la Cina si oppone al protezionismo commerciale non solo per salvaguardare i propri interessi legittimi, ma anche per salvaguardare gli interessi comuni del resto del mondo, ivi compresa l’Unione europea. La Cina è ora in prima fila nella lotta contro l’unilateralismo, il protezionismo commerciale e auspica che nessuno la colpisca a tradimento. Preoccupazioni sono state lanciate anche dalla Vice Presidente di Confindustria, Licia Mattioli, che, intervistata da Radio Cina Internazionale, ha osservato che le politiche protezionistiche adottate da Trump rappresentano un’azione in controtendenza al processo di globalizzazione economica e che avranno un enorme impatto sulle imprese italiane.

Una guerra commerciale danneggerebbe quindi tutto il mondo, non solo Cina e Stati Uniti. Se si vorranno realmente risolvere questi problemi, gli Stati Uniti dovrebbero cambiare metodo per risolvere gli attriti commerciali. Cina e Usa potrebbero lavorare ad un accordo per promuovere insieme l’economia digitale, accelerare i negoziati sul Bilateral Investment Treaty (BIT), rafforzare la cooperazione nel quadro dell’iniziativa One Belt One Road e nei settori degli investimenti e delle infrastrutture, sviluppandosi insieme su mercati terzi sempre nell’ambito di questo progetto e promuovere il Free Trade Agreement (FTA) tra Cina e Usa. La possibilità di un FTA tra i due Paesi non è ancora stata discussa e, nel caso dell’avvio di un accordo bilaterale, secondo quanto affermato dell’Istituto Peterson, Cina e Stati Uniti potrebbero aumentare di 500 miliardi di dollari il volume dei loro scambi.

Tanti esperti e studiosi, funzionari e media si sono espressi su quanto accaduto, condannando la politica commerciale portata avanti dall’amministrazione Trump, esprimendo la propria preoccupazione per le conseguenze che questa potrà avere e ritenendo che la politica dell’America First propugnata da Trump, non avrà successo.

In un’intervista rilasciata al China Media Group, il direttore del Centro di ricerca spagnolo sulla politica cinese, Xulio Rios, ha affermato che l’obiettivo finale della guerra commerciale lanciata dagli Stati Uniti è la massimizzazione dei propri interessi nazionali e la salvaguardia della propria posizione egemonica, per far fronte alla ripresa della Cina. Xulio Rios ha sottolineato che l’impatto globale di questa guerra commerciale è paragonabile a quello della crisi finanziaria globale del 2008 provocata dalla crisi dei mutui subprime negli Usa. Infine, secondo l’inviato a New York del quotidiano La Stampa, Paolo Mastrolilli, dietro alle motivazione della guerra dei dazi vi sarebbero la preoccupazioni statunitensi per la crescita della Cina nel settore della robotica, dell’intelligenza artificiale e dell’hi-tech, che starebbe mettendo in discussione la leadership mondiale americana nella produzione di tecnologica

Fonte: Gli occhi della guerra.

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