La crisi di Riyadh s’aggrava mese dopo mese, sgretolandone la potenza finanziaria e facendo vacillare la sua leadership fra gli Stati arabi e all’interno dello stesso Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc).

Secondo una notizia riportata la settimana scorsa, l’Arabia Saudita avrebbe chiesto al Kuwait 10 Mld di dollari per coprire le crescenti spese destinate alla guerra in Yemen, ricevendone un rifiuto. Il diniego si somma alle mosse diplomatiche del piccolo emirato, che ha inviato a Teheran il proprio Ministro degli Esteri ed ha appena ospitato il presidente iraniano Rouhani, mostrando di volersi sganciare dalla politica di contrapposizione frontale nei confronti dell’Iran voluta da Riyadh.

La monarchia wahabita, infuriata, ha chiesto invano al Kuwait di tagliare i legami diplomatici con Teheran, ricevendo un nuovo schiaffo; una vera e propria sfida alla leadership saudita, impensabile fino a qualche tempo fa.

Il fatto è che la crisi di Riyadh è ormai manifesta ponendo il Regno wahabita in una situazione assai delicata: a due anni dall’aggressione contro lo Yemen, malgrado abbia profuso sforzi immensi e mobilitato una vasta coalizione militare, non ha ottenuto successi determinanti e si trova sempre più invischiata in una guerra che la sta dissanguando e distruggendo la sua credibilità. D’altra parte, non può ritirarsi senza aver centrato alcun obiettivo perché un simile insuccesso sarebbe fatale alle residue velleità politiche di Riyadh, che ne uscirebbe completamente screditata.

Secondo un rapporto dell’International Peace Research Institute di Stoccolma, l’Arabia Saudita si trova in difficoltà a mantenere il crescente livello di spese militari e sta riuscendo a farlo da un canto operando tagli ai programmi che da sempre sovvenzionano la società saudita, dall’altro con pesanti deficit che intaccano sempre più a fondo le sue riserve valutarie. Per rappresentare la crisi di Riyadh basta ricordare che nel 2015 ha avuto un deficit di 87 Mld, nel 2016 di 98 e per il 2017, grazie ai pesanti tagli apportati alle spese assistenziali (quelle che garantiscono il consenso al regime), si preventiva un deficit di 53 Mld.

Ciò malgrado, e con un prezzo del greggio che continua a mantenersi basso deprimendo le entrate del Regno, per il 2017 è previsto un ulteriore incremento del 6,7% della spesa militare, fissata per l’annualità a 50,8 Mld. Questa massa ingente di denaro non è destinata solo alle spese vive della disastrosa campagna yemenita; una parte sostanziosa e crescente di essa va ad altri Paesi (vedi Sudan, Pakistan, Egitto, Marocco, etc.) per mantenerli nella coalizione o convincerli a unirsi a essa.

Ma gli esborsi non si limitano a quanto previsto nel bilancio militare: altri ingenti capitali escono dalle casse saudite sotto forma di “aiuti” a vari Paesi (anche occidentali) per comprare il loro sostegno politico alla sciagurata avventura in Yemen.

Tuttavia, non sono solo le ambizioni nel pantano yemenita a falcidiare le finanze saudite: recentemente Riyadh ha manifestato l’intenzione di formare usa sorta di “Nato araba” che dovrebbe inviare truppe in Siria. Nella realtà, dietro ad una proposta nei fatti risibile c’è la manifestazione di disponibilità a farsi carico delle spese di un dispiegamento militare Usa nell’area del Golfo Persico per tutelare la sicurezza delle petromonarchie, e l’istituzione di cosiddette “zone di sicurezza” in Siria.

Il fatto è che malgrado la crisi di Riyadh sia manifesta, i regnanti sauditi continuano a rimanere attaccati alla “diplomazia del portafoglio”, quella che in passato ha garantito il mantenimento dei loro privilegi, ma che ora ha fallito e continua a fallire clamorosamente dinanzi ad attori per i quali non è il denaro l’unica molla.

Il continuo incremento delle spese e il basso prezzo del petrolio stanno costringendo i sauditi a cercare soluzioni per approvvigionarsi di denaro fresco; il viaggio di Re Salman in Asia Orientale, condotto con una stucchevole quanto pacchiana ostentazione di una opulenza nel tentativo di nascondere la crisi di Riyadh, pare che sia stato dettato in realtà dalla necessità di trovare finanziatori ed acquirenti di quote dell’Aramco, il gigante petrolifero di proprietà della casa reale.

Il fatto è che, secondo Bloomberg, Mohammad bin Salman, il giovane principe rampante che ha preso le redini del Regno, valutava il valore della compagnia superiore ai 2mila Mld di dollari; peccato che le stime delle agenzie internazionali la quotino fra i 400 e i 1000 Mld (e a quanto pare, le valutazioni più alte pare siano figlie di valutazioni interessate). Questo, con la crisi di Riyadh ben a conoscenza di un mercato di squali che sentono l’odore del sangue, ovvero del bisogno dei sauditi di fare cassa, fa saltare tutte le rosee previsioni dei Saud.

Nella sostanza, la crisi di Riyadh è figlia della lunghissima serie di sconfitte politiche ed economiche che l’Arabia Saudita ha collezionato (i vari tentativi di destabilizzare Siria ed Iraq; la fallimentare guerra del petrolio contro l’Iran, conclusasi con una sostanziale resa mediata da Mosca; l’inutile strenua opposizione agli accordi di Vienna; la sciagurata avventura yemenita per fermarsi alle più salienti) che ne hanno minato gravemente la potenza finanziaria, ma soprattutto ne hanno scosso alle fondamenta la passata leadership nel mondo arabo, distruggendone in larghissima parte la credibilità. Per concludere, la crisi di Riyadh è la nemesi di un regime corrotto, che non riesce ad accettare la realtà di un nuovo Medio Oriente che sta nascendo.

di Salvo Ardizzone

Il Faro sul Mondo

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