
In questo contesto, crolla lo smaltimento dei rifiuti non differenziati in discarica -7,8 milioni di tonnellate, in discesa del 16% rispetto a un anno prima- mentre cresce la quantità di materia avviata ai 41 inceneritori attivi nel Paese. I rifiuti urbani destinati ai forni hanno sfiorato infatti quota 5,6 milioni di tonnellate (nel 2011, quando gli impianti erano 50, furono circa 5,3 milioni), per il 70% dei casi bruciati al Nord. Il fatto che la discarica “perda” materia deriva dal fatto che l’inceneritore tende a sostituirla. Ma è qui che si apre il problema delle “dimensioni” immaginate dal Governo per i prossimi anni.
Stando al “decreto Renzi” pubblicato nella Gazzetta Ufficiale nell’ottobre 2016, infatti, il nostro Paese detiene già una “capacità nazionale di trattamento dei rifiuti urbani e assimilati” pari a 5,9 milioni di tonnellate annue. Cui si possono aggiungere virtualmente quelle autorizzate ma “non in esercizio”, che pesano per altre 665.650 tonnellate. Arrotondando si ottiene quindi una capacità esistente di circa 6,5 milioni di tonnellate. Per l’esecutivo, però, non è abbastanza. Ed è per questo che ha stimato un “fabbisogno impiantistico da realizzare” per altre 1,8 milioni di tonnellate (solo la Sicilia ne ospiterebbe 690mila). Totale: quasi 8,4 milioni di tonnellate. La bolla degli inceneritori inizia qui. Immaginando -contrariamente a quanto sta già accadendo- che la produzione dei rifiuti resti costante nei prossimi anni (29 milioni di tonnellate) e che la differenziata, lentamente, raggiunga il sofferto traguardo del 65%, i rifiuti indifferenziati da gestire si ridurrebbero a poco più di 10 milioni di tonnellate. Se gli inceneritori continuassero ad erodere la quota destinata alla discarica (oggi al 58% contro il 42% dei forni), vorrebbe dire che la capacità necessaria non supererebbe quota 5 milioni di tonnellate, ben distanti dalle 8,4 immaginate dal Governo. Un sovradimensionamento non necessario del 68%. Una scommessa che rischia di rallentare una gestione virtuosa dei rifiuti. L’ISPRA, però, nega che l’incenerimento possa “disincentivare” la raccolta differenziata. A sostegno della sua tesi cita “alcune regioni quali Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Campania e Sardegna”. Nonostante si bruci (e molto) “la raccolta differenziata raggiunge valori elevati”. C’è un problema nell’analisi dell’ISPRA. Questa è relativa infatti alle Regioni nella loro interezza e non invece alla scala provinciale, dove cioè insistono i forni. Alcuni dati territoriali aiutano a capire meglio. A Brescia c’è uno tra i più grandi forni d’Italia: 981mila tonnellate annue autorizzate in capo alla multiutility A2a. La provincia di Brescia è quella con il tasso di produzione pro-capite di rifiuti più alto della Lombardia (517,1 chilogrammi) e registra una percentuale di raccolta differenziata sotto la media regionale (58,1% contro 58,7). Anche Trieste, unica provincia friulana con un forno sul territorio (del Gruppo Hera), differenzia appena il 34,9% contro il 63% circa regionale. O Napoli, contesto in cui ricade l’impianto di Acerra (600mila tonnellate annue, A2a), che è la provincia campana in cui si producono più rifiuti pro-capite (470 chilogrammi circa contro la media di 438) e la raccolta differenziata è ferma al 43,2% (Benevento è al 69,3%). Ma i forni devono sopravvivere a tutti i costi. A Lecco, prima provincia italiana a superare quota 50% di differenziata nel 2002 e oggi al 60,5%, la società pubblica partecipata dai Comuni che gestisce il forno inceneritore nel comune di Valmadrera, Silea Spa, si appresta a realizzare una rete di teleriscaldamento allacciata all’impianto… Continua a leggere su Altreconomia