Dal Boston Globe, un interessante articolo dell’economista Jeffrey Sachs sui costi dell’imperialismo americano, che ha ormai più di un secolo di storia. Le spese militari americane per le guerre in Medio Oriente hanno raggiunto l’incredibile cifra di 4.7 trilioni di dollari in 15 anni, causando l’aumento del debito pubblico e il taglio degli investimenti nazionali, mentre la quota parte del PIL USA sulla ricchezza globale continua a declinare in favore degli emergenti. Secondo Sachs, gli USA sono ormai di fronte ad una scelta: abbandonare i sogni imperiali di un mondo unipolare per concentrarsi sullo sviluppo interno – o continuare con le infrastrutture militari e le guerre per i cambi di regime, andando incontro a un inevitabile fallimento.

di Jeffrey D. Sachs, 30 ottobre 2016

La questione più importante nell’allocazione delle risorse nazionali è la scelta tra guerra e pace, o come la mettono i macro-economisti, “burro o cannoni”.  Gli Stati Uniti stanno facendo una scelta profondamente sbagliata, sperperando ingenti somme e minando la sicurezza nazionale.  In termini economici e geopolitici, l’America soffre di quello che lo storico Paul Kennedy della Yale University chiama “ipertensione imperiale”. Se il nostro prossimo presidente rimarrà intrappolato in costose guerre mediorientali, i costi di bilancio da soli potrebbero far deragliare le speranze di risolvere i nostri enormi problemi interni.

Può sembrare tendenzioso chiamare l’America un impero, ma il termine rispecchia certe realtà del potere degli Stati Uniti e come questo è usato. Un impero è un gruppo di territori sotto un unico potere. La Gran Bretagna del XIX era ovviamente un impero quando governava l’India, l’Egitto, e decine di altre colonie in Africa, Asia e nei Caraibi.  Gli Stati Uniti governano direttamente solo una manciata di isole conquistate (Hawaii, Porto Rico, Guam, Samoa, le Isole Marianne Settentrionali), ma stazionano truppe e hanno usato la forza per influenzare il governo in decine di altri paesi sovrani. Questa presa di potere oltre le coste americane si sta ora indebolendo.

La dimensione delle operazioni militari statunitensi è straordinaria. Il Dipartimento della difesa statunitense ha (dall’inventario 2010) 4.999 strutture militari, di cui 4.249 sono negli Stati Uniti; 88 sono nei territori oltremare degli Stati Uniti; e 662 in 36 paesi e territori stranieri, in tutte le regioni del mondo. In questa lista non sono conteggiate le strutture segrete dei servizi americani. Il costo di gestione di queste operazioni militari e delle guerre che sostengono è straordinario, intorno ai 900 miliardi di dollari all’anno, pari al 5 per cento del reddito nazionale degli Stati Uniti, se ci si aggiunge anche il bilancio del Pentagono, dei servizi segreti, della sicurezza nazionale, dei programmi sulle armi nucleari del Dipartimento dell’Energia, e i sussidi ai veterani.  I 900 miliardi di dollari di spesa annua ammontano a circa un quarto di tutte le spese del governo federale.

Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di utilizzo di operazioni segrete o manifeste per rovesciare governi considerati ostili agli interessi degli Stati Uniti, seguendo la classica strategia imperiale di governare attraverso regimi amici imposti localmente. In un importante studio sull’America Latina nel periodo tra il 1898 e il 1994, per esempio, lo storico John Coatsworth conta 41 casi “di successo” di cambio di regime condotto dagli Stati Uniti, per una media di un rovesciamento di governo ogni 28 mesi su tutto il secolo. E notare: il conteggio di Coatsworth non include i tentativi falliti, come la Baia dei Porci di Cuba.

Questa tradizione di cambi di regime guidati dagli USA è stata parte integrante della politica estera degli Stati Uniti in altre parti del mondo, compresa l’Europa, l’Africa, il Medio Oriente, e il Sud-Est asiatico. Le guerre per il cambiamento di regime sono costose per gli Stati Uniti, e spesso devastanti per i paesi coinvolti. Due importanti studi hanno misurato i costi delle guerre in Iraq e in Afghanistan. Uno, di Joseph Stiglitz, mio collega alla Columbia, e Linda Bilmes, studiosa di Harvard, giunge a un costo di 3 trilioni di dollari fino al 2008. Uno studio più recente, facente parte del “Progetto sul Costo della Guerra” della Brown University, calcola il prezzo a 4.7 trilioni di dollari fino al 2016. Per un periodo di 15 anni, 4.7 trilioni di dollari sono pari a circa 300 miliardi di dollari l’anno, più delle spese totali combinate, dal 2001 al 2016, dei dipartimenti federali dell’istruzione, dell’energia, del lavoro, degli interni, dei trasporti, e della Fondazione Nazionale delle Scienze, dell’Istituto Nazionale della Salute, e dell’Agenzia di Protezione del Territorio.

E’ quasi un dato di fatto che le guerre degli Stati Uniti per i cambi di regime hanno raramente servito le esigenze di sicurezza USA. Anche quando le guerre riescono a rovesciare un governo, come nel caso dei talebani in Afghanistan, di Saddam Hussein in Iraq, e di Muammar Gheddafi in Libia, il risultato raramente è un governo stabile,  più spesso è una guerra civile. Un cambio di regime “di successo” spesso accende una lunga miccia che porta a una futura esplosione, come ad esempio il rovesciamento del governo democraticamente eletto dell’Iran nel 1953 e l’insediamento dello Scià autocratico, cui ha fatto seguito la rivoluzione iraniana del 1979.  In molti altri casi, come ad esempio i tentativi degli Stati Uniti (assieme con l’Arabia Saudita e la Turchia) di rovesciare Bashar al-Assad in Siria, il risultato è un bagno di sangue e una situazione di stallo militare piuttosto che un rovesciamento del governo.

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Qual è la motivazione profonda per queste guerre immorali e per le basi militari in terre lontane che le sostengono?

Dal 1950 al 1990, una risposta superficiale sarebbe stata la Guerra Fredda. Eppure il comportamento imperialista dell’America precede la guerra fredda di mezzo secolo (indietro fino alla guerra ispano-americana del 1898) e la supera di un altro quarto di secolo. Le avventure imperiali oltremare dell’America cominciarono dopo la guerra civile e la conquista finale delle nazioni dei nativi americani.  A quel punto, i leader politici e imprenditoriali degli Stati Uniti hanno cercato di unirsi agli imperi europei – in particolare Gran Bretagna, Francia, Russia e l’emergente Germania – nelle conquiste oltremare. In breve tempo, l’America si è accaparrata Filippine, Porto Rico, Cuba, Panama, e le Hawaii, e si è unita alle potenze imperiali europee nel bussare alle porte della Cina.

A partire dal 1890, gli Stati Uniti sono stati di gran lunga la più grande economia del mondo, ma fino alla Seconda Guerra Mondiale hanno mantenuto una posizione subalterna all’Impero Britannico come  potenza navale, come estensione dell’impero, e come potenza geopolitica. Gli inglesi erano  maestri impareggiabili nel cambio di regime – per esempio, nella spartizione del cadavere dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale.  Tuttavia l’esaurimento causato da due guerre mondiali e dalla Grande Depressione ha posto fine agli imperi britannico e francese dopo la Seconda Guerra Mondiale, portando in primo piano gli Stati Uniti e la Russia  come i due principali imperi mondiali. La Guerra Fredda era cominciata.

La base economica dell’influenza globale dell’America era senza precedenti. Nel 1950 la produzione degli Stati Uniti costituiva un notevole 27 per cento della produzione mondiale, mentre l’Unione Sovietica arrivava all’incirca a un terzo, circa il 10 per cento. La Guerra Fredda alimentava due idee fondamentali che avrebbero modellato la politica estera americana fino ad oggi. La prima era che gli Stati Uniti erano in lotta per la sopravvivenza contro l’impero sovietico. La seconda era che ogni paese, non importa quanto remoto, era un campo di battaglia in quella guerra globale. Anche se gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica evitavano un confronto diretto, flettevano i muscoli nelle guerre calde di tutto il mondo che servivano da surrogati della competizione diretta tra le superpotenze.

Nel corso di quasi mezzo secolo, Cuba, Congo, Ghana, Indonesia, Vietnam, Laos, Cambogia, El Salvador, Nicaragua, Iran, Namibia, Mozambico, Cile, Afghanistan, Libano, e anche la piccola Granada, tra molti altri, sono stati interpretati dagli strateghi americani come campi di battaglia contro l’impero sovietico. Spesso erano coinvolti interessi molto più prosaici. Società private come United Fruit International e ITT convinsero i propri amici nelle alte sfere (i famosi fratelli Dulles, il Segretario di Stato John Foster e il direttore della CIA Allen) che le riforme agrarie o le minacce di esproprio delle grandi società erano terribili minacce agli interessi degli Stati Uniti, e quindi era necessario un cambio di regime a guida USA.  Gli interessi petroliferi in Medio Oriente erano un’altra causa frequente di guerra, come era stato per l’Impero Britannico dagli anni ’20.

Queste guerre hanno destabilizzato e impoverito i paesi interessati, piuttosto che indirizzarne la politica a favore degli Stati Uniti. Le guerre per il cambio di regime sono state, con poche eccezioni, una serie di fallimenti di politica estera. Sono state anche straordinariamente costose per gli stessi Stati Uniti. La guerra del Vietnam naturalmente è stata il più grande dei disastri, così costosa, sanguinosa, e controversa da togliere completamente spazio all’altra guerra di Lyndon Johnson, di gran lunga più importante e promettente, la guerra alla povertà negli Stati Uniti.

La fine della guerra fredda, nel 1991, avrebbe dovuto essere l’occasione per un riorientamento di fondo della politica “burro o cannoni” degli Stati Uniti. L’occasione offriva agli Stati Uniti e al mondo intero un “dividendo della pace”, la possibilità di riorientare l’economia americana e mondiale dal “piede di guerra” allo sviluppo sostenibile.  In effetti, il Vertice della Terra svoltosi a Rio nel 1992  poneva lo sviluppo sostenibile al centro della cooperazione globale, o almeno così sembrava.

Ahimè, i paraocchi e l’arroganza del pensiero imperiale americano hanno impedito agli Stati Uniti di assestarsi su una nuova era di pace. Mentre stava finendo la Guerra Fredda, gli Stati Uniti stavano iniziando una nuova era di guerre, questa volta in Medio Oriente. Gli Stati Uniti avrebbero spazzato via i regimi sostenuti dai sovietici in Medio Oriente e stabilito l’incontrastato dominio politico degli Stati Uniti.  O almeno questo era il piano.

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Il quarto di secolo a partire dal 1991 è stato quindi segnato dalla guerra permanente degli Stati Uniti in Medio Oriente,  che ha destabilizzato la regione, deviato enormi risorse dalle necessità civili a quelle militari, e ha contribuito a creare grandi deficit di bilancio e un accumulo di debito pubblico. L’ideologia imperialista ha portato a guerre per il cambio di regime in Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Somalia e Siria, nel corso di quattro presidenze: George H.W. Bush, Bill Clinton, George W. Bush, e Barack Obama.  Lo stesso pensiero ha indotto gli Stati Uniti a espandere la NATO sino ai confini della Russia, nonostante che il presunto obiettivo della NATO fosse quello di difendersi da un avversario – l’Unione Sovietica – che non esisteva più. L’ex presidente sovietico Mikhail Gorbaciov ha sottolineato che l’espansione della NATO verso est “è stata certamente una violazione dello spirito di quelle dichiarazioni e di quelle garanzie che ci erano state date nel 1990” sul futuro della sicurezza Est-Ovest.

Vi è una grande differenza economica, tuttavia, tra oggi e il 1991, e tanto più col 1950. All’inizio della Guerra Fredda, nel 1950, gli Stati Uniti contavano per circa il 27 per cento della produzione mondiale. A partire dal 1991, quando stavano prendendo forma i sogni di dominio USA di Dick Cheney e Paul Wolfowitz, gli Stati Uniti rappresentavano circa il 22 per cento della produzione mondiale.  Ad oggi, secondo le stime del FMI, la quota di prodotto degli Stati Uniti è del 16 per cento, mentre la Cina ha superato gli Stati Uniti ed è intorno al 18 per cento. Entro il 2021, secondo le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale, gli Stati Uniti conteranno per circa il 15 per cento della produzione mondiale rispetto al 20 per cento della Cina. Gli Stati Uniti stanno andando incontro a un enorme debito pubblico e al taglio di investimenti pubblici urgenti in casa propria, per sostenere una politica estera disfunzionale, militarizzata, e costosa.

Così siamo di fronte a una scelta fondamentale. Gli Stati Uniti possono continuare a portare avanti il loro vano progetto neoconservatore di dominio unipolare, anche se i recenti fallimenti in Medio Oriente e il declino del predominio economico degli Stati Uniti garantiscono il fallimento finale di questa visione imperiale. Se, come sostengono alcuni neoconservatori,  gli Stati Uniti ora si impegnano in una corsa agli armamenti con la Cina, siamo destinati a fallire in un decennio o due, se non prima.  Le costose guerre in Medio Oriente – anche se continuassero in modo più contenuto durante una presidenza di Hillary Clinton – potrebbero facilmente mettere fine ad ogni realistica speranza per una nuova era di grandi investimenti federali in materia di istruzione, formazione della forza lavoro, infrastrutture, scienza e tecnologia, e ambiente.

L’approccio di gran lunga più intelligente sarà quello di mantenere le capacità difensive dell’America, ma porre fine alle sue pretese imperiali. Questo, in pratica, significa tagli all’estesa rete di basi militari, ponendo fine alle guerre per cambi di regime, evitando una nuova corsa agli armamenti (soprattutto nelle armi nucleari di nuova generazione), e anche impegnarsi con Cina, India, Russia, e altre potenze regionali per una intensificazione delle relazioni diplomatiche, attraverso le Nazioni Unite, in particolare per azioni condivise sugli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, tra cui il cambiamento climatico, il controllo delle malattie, e l’istruzione globale.

Molti conservatori americani si metteranno a ridere al solo pensiero che lo spazio di manovra degli Stati Uniti debba essere limitato al minimo dalle Nazioni Unite. Ma pensate a quanto meglio starebbero oggi gli Stati Uniti se avessero dato ascolto alla saggia opposizione del Consiglio di sicurezza ONU nei confronti delle guerre per il cambio di regime in Iraq, Libia e Siria. Molti conservatori additeranno le azioni di Vladimir Putin in Crimea come prova che la diplomazia con la Russia è inutile, senza riconoscere che sono state principalmente l’espansione della NATO nel Baltico e il suo invito all’Ucraina ad aderire alla NATO nel 2008 ad innescare la risposta di Putin.

Alla fine, la stessa Unione Sovietica è andata in bancarotta a causa delle costose avventure all’estero, come l’invasione dell’Afghanistan nel 1979, e per i suoi grandi ed eccessivi investimenti in campo militare. Oggi gli Stati Uniti  allo stesso modo hanno investito troppo in campo militare, e continuando le guerre in Medio Oriente e lanciando una corsa agli armamenti con la Cina potrebbero seguire un simile percorso di declino. E’ tempo di abbandonare il sogno, gli oneri, e l’auto-inganno di un impero e di investire nello sviluppo sostenibile a casa e in collaborazione con il resto del mondo.

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