L’esplosione dell’islamismo nelle Filippine è un fatto molto preoccupante, che dimostra come a est del Califfato vi sia un mondo, specialmente nel Sudest asiatico, dove i seguaci dello Stato Islamico possono riprodurre, con le dovute distinzioni, l’orrore già visto in Medio Oriente. Nelle ultime settimane, le bandiere nere dell’islamismo salafita hanno cominciato a sventolare nel sud delle Filippine ed hanno provocato violenze e azioni militari da parte del governo di Duterte, che adesso si trova a dover affrontare una vera e propria nascita di un califfato salafita nella parte meridionale dello Stato. Una situazione di massimo allarme che, tuttavia, non doveva sorprendere eccessivamente gli osservatori.

Le Filippine sono, infatti, da anni preda di un’evoluzione negativa dell’islam locale, tanto da aver destato preoccupazione nei governi e nelle forze di sicurezza del Paese. Già nel 2014, l’intelligence filippina aveva comunicato che almeno un centinaio di cittadini si fosse recato in Siria in quegli anni per combattere il jihad sotto le bandiere dello Stato Islamico. Nel frattempo, soprattutto nell’isola di Mindanao, iniziava la capillare propaganda dell’Isis che reclutava giovani locali per entrare nella più ampia rete di Ansar Al-Khilafah Philippines, ovvero il gruppo di affiliati e sostenitori del Daesh nel Paese.

La nascita dello Stato Islamico di Siria e Iraq ha provocato all’interno del Paese un’esaltazione della galassia islamista che da anni cercava visibilità senza successo. Con la garanzia di un brand ormai collaudato, di un sistema chiaro di gerarchie, miliziani e denaro, i gruppi jihadisti delle Filippine hanno da subito dichiarato la propria fedeltà all’Isis. Lo Stato Islamico è dunque stato preso dai molti gruppi terroristici dell’isola di stampo islamico come un valido collante per riunire le forze o per rinnovarsi e cercare di assumere con la forza il controllo dell’isola di Mindanao. Un fascino stigmatizzato dalle sigle storiche della lotta islamica nell’isola, e che invece hanno subito altri gruppi come il Biff (Bangsamoro Freedom Fighters), Abu Sayyaf e il gruppo Maute, che si è unito con l’altro gruppo terroristico  Khalifa Islamiyah. In questo modo, sigle islamiche e sigle indipendentiste dell’isola si sono tutte messe insieme per ricomporre il fronte comune della lotta per l’autonomia della regione da Manila. Il tutto con una logica islamista e profondamente legata al jihad

L’arrivo di Rodrigo Duterte alla presidenza delle Filippine ha dato una scossa importante al movimento islamico di Mindanao. Innanzitutto perché Duterte proviene proprio da quell’isola e dunque conosce molto bene le problematiche concernenti il jihadismo del sud delle Filippine. Ottenuta la carica di presidente, Duterte aveva affermato di voler intraprendere un percorso di pacificazione con i ribelli islamisti e aveva ricevuto anche delle indicazioni positive da alcune sigle. Non da tutte però. In particolare il gruppo Maute, che da tempo era coinvolto in una vera e propria guerra contro le forze di sicurezza delle Filippine, si era dimostrato totalmente contrario a qualsiasi tipi di accordo, tanto da essere sospettato di essere l’artefice degli attentati del 2016 a Davao e a Manila.

Il problema reale però da parte di Duterte è che, al netto delle sue idee particolarmente dure nei confronti dei ribelli, non ha mai definitivamente compreso il significativo cambiamento che le forze ribelli islamiste avevano assunto nell’isola di Mindanao negli ultimi anni. Duterte era legato a una visione tradizionale di questi ribelli, tendenzialmente ritenuti più secessionisti che fanatici religiosi. E così erano fino a pochi anni prima, quando la guerra dei “moros” (così erano definiti i musulmani filippini) era tutta incentrata sulla voglia di autonomia politica e culturale da Manila. La nuova frontiera dell’islamismo filippino è invece densa di elementi ideologici e fanatici che provengono dal Medio Oriente, dalle frange del Califfato, territorio in cui molti foreign fighters filippini sono stati addestrati e che hanno poi fatto proseliti all’interno del loro nucleo.

Maute, che ha nel tempo assunto la leadership del movimento islamista della regione e che fa capo direttamente al Califfato di Raqqa, rappresenta esattamente questo cambiamento del radicalismo nelle Filippine. In esso sono presenti tutti i connotati dei gruppi jihadisti legati al Daesh, dagli elementi ideologici e religiosi a quelli anche tecnici come la presenza di foreign fighters provenienti da altri Stati asiatici. Tanto è vero che Maute non ha come obiettivo l’autonomia della regione in se per se, ma l’instaurazione di un Califfato nelle Filippine. Un cambiamento radicale nell’idea stessa d’islam delle Filippine. In questo modo, Maute si sta non soltanto accreditando agli occhi del Daesh come gruppo credibile nell’Estremo Oriente, ma sta anche dimostrando il proprio sganciamento dall’orbita di Al Qaeda. L’obiettivo del gruppo non è più quello di rimanere nell’ombra con azioni terroristiche, ma quello di ripercorrere la via dell’Isis in territorio filippino, con un proprio esercito e una propria struttura parastatale. Un pericolo che Duterte vuole annientare con l’esercito e la legge marziale ma che desta preoccupazione soprattutto per i Paesi vicini. L’esperienza del Daesh dimostra come non si possa sottovalutare alcun tipo di minaccia.

Gli Occhi della Guerra

 

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