Fra Erdogan e gli Usa, malgrado il cambio di Amministrazione a Washington, i motivi di discordia rimangono immutati. Giovedì scorso, il Segretario di Stato Rex Tillerson si è incontrato ad Ankara con il primo ministro Yildirim e con il Presidente turco; un incontro necessariamente interlocutorio, vista l’importanza dei temi sul tappeto e il decisivo referendum presidenziale del 16 aprile, ma, da indiscrezioni, le profonde divergenze fra le due capitali restano tutte e gli Usa non intendono smorzarle.
Ciò che divide Erdogan e gli Usa su tempi come Raqqa, i Curdi o Fethullah Gulem, non sono posizioni diverse di carattere strategico o militare, in fin dei conti superabili, ma piuttosto geopolitiche e dunque al momento inconciliabili.
Per la passata Amministrazione di Washington come per la presente, non si tratta di decidere se la liberazione di Raqqa sia più facile con l’aiuto delle Esercito turco o dei Curdi delle Ypg; è una domanda inutile perché agli Usa non interessa sconfiggere l’Isis e prendere Raqqa, interessano invece due cose: disporre di pedine sul campo da manovrare (i Curdi appunto), attraverso cui acquisire crediti da spendere ai futuri negoziati sul Siraq, e soprattutto, sempre attraverso i Curdi, mantenere sotto scacco la Turchia con la minaccia di un Pkk forte e vittorioso ai suoi confini.
Nei rapporti fra Erdogan e gli Usa, con il passaggio da Obama a Trump nulla è cambiato, anche perché l’iniziativa è rimasta a quelle Agenzie (Pentagono e Dipartimento di Stato) su cui la nuova Amministrazione ha poca presa, e comunque ha scarsa o nulla conoscenza di quei dossier.
In questo modo, Washington ha messo nell’angolo il Presidente turco che infatti, stretto fra Stati Uniti e Russia, è stato costretto a dichiarare la fine dell’Operazione Scudo dell’Eufrate senza aver realizzato i suoi disegni: smantellare le Ypg curde (più che mai appoggiate da Washington ed ora anche da Mosca, vedi la nuova base ad Afrin) ed assicurarsi l’egemonia nel nord della Siria.
E frustrazione è venuta anche dal dossier Fethullah Gulem, l’ispiratore dello sgangherato golpe del 15 luglio e arcinemico del Presidente turco, ma una carta di pressione troppo preziosa perché Washington se ne privi concedendo l’estradizione.
A rendere più scottante il rapporto fra Erdogan e gli Usa, c’è la caccia ad Adil Oksuz, una figura chiave del golpe, di cui si sono perse le tracce, ma sul cui cellulare le autorità turche hanno riscontrato una telefonata del consolato Usa di Istanbul il 21 luglio, sei giorni dopo il golpe e quando era arcinoto il ruolo di Oksuz, fatto che avvalora la tesi (semmai ce ne fosse bisogno) del coinvolgimento della Cia nella fallimentare operazione, ma che aumenta la frustrazione di Ankara.
Il fatto è che fra Erdogan e gli Usa la fiducia è a zero, Washington lo ritiene (a ragione) totalmente inaffidabile ma troppo importante per permettergli libertà di manovra, come schierarsi definitivamente con Mosca, che dal canto suo ne diffida, eccome, prendendo le debite misure per imbrigliarlo. Cosciente d’essere in un vicolo cieco, sono due le carte su cui il Presidente turco sta puntando tutto: la prima, cessata l’Operazione Scudo dell’Eufrate, prevede lo spostamento in massa dei miliziani del Free Syrian Army al libro paga di Ankara, dall’area a nord-est di Aleppo verso ovest, a Idlib, per continuare a combattere contro Damasco, per mantenere un mezzo di pressione sulla scena.
Una mossa disperata e di dubbia riuscita perché laggiù i nuovi “ribelli” non saranno accolti certo bene dai qaedisti di Fateh al-Sham (ex al-Nusra) e dagli altri tagliagole salafiti che vi sono ammassati; inoltre, l’Esercito siriano e i suoi alleati stanno preparando un’offensiva decisiva per liberare quel Governatorato e, comunque, l’Aviazione russa ha già cominciato a martellarli senza soste.
La seconda e più essenziale carta rimasta a Erdogan è il referendum sul presidenzialismo; dovesse perdere, per lui sarebbe un disastro difficilmente recuperabile nell’attuale situazione: enormemente ridimensionato, rimarrebbe schiacciato fra Usa e Russia (e Iran), paralizzato nelle sue aspirazioni in Siria ed Iraq e sotto i ricatti Usa.
Una neutralizzazione di fatto altamente augurabile per Washington; per questo, fra Erdogan e gli Usa i motivi di discordia rimarranno e, semmai, sono destinati ad aumentare.
di Salvo Ardizzone