Venerdì 10 febbraio, a Washington, il neo presidente statunitense, Donald Trump, riceverà in visita il premier giapponese, Shinzo Abe. L’appuntamento ha una valenza politica importante: Abe sarà il primo leader di un altro paese a incontrare Trump dopo la sua elezione. Ma l’appuntamento è carico di significati anche sotto il profilo economico. A cominciare dalla questione monetaria, che a Trump sta particolarmente a cuore (le sue dichiarazioni lo dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio), al punto che qualche analista ha già cominciato a parlare di guerra delle valute.

Secondo indiscrezioni, Abe sarebbe intenzionato a prospettare al neo presidente americano l’urgenza di discutere la questione valutaria in sede di G7 o G20 al posto di cercare intese con singoli paesi. Inoltre, il premier nipponico sarebbe intenzionato a spiegare a Trump che la politica monetaria giapponese è finalizzata a combattere la deflazione e non a indebolire lo yen. Per meglio capire il senso di questa precisazione, bisogna tenere presente che il presidente degli Stati Uniti aveva accusato Giappone e Cina di svalutare le loro monete domestiche, e quindi rispettivamente yen e yuan, a svantaggio degli Usa. Un’accusa simile, tra l’altro, è stata di recente mossa anche nei confronti nella Germania: Peter Navarro, uno dei principali consiglieri economici di Trump, ha dichiarato che l’euro è per Berlino un “implicito marco tedesco” che, con la sua bassa valutazione, dà alla Germania un vantaggio rispetto ai partner commerciali.

Il premier giapponese, Shinzo Abe, nel gennaio del 2017 a Sydney, Australia – foto di Brook Mitchell/Getty Images

E’ evidente che dietro all’incontro tra Trump e Abe si celi quella che si preannuncia come una vera e propria nuova guerra delle valute. Ma dove porterà? Economisti e addetti ai lavori cominciano a porsi l’interrogativo e ad analizzare la situazione. Lo strategist di Deutsche Bank, Taisuke Tanaka, per esempio, ritiene che Abe abbia preparato proposte concrete da sottoporre al presidente Trump per spingere l’economia e l’occupazione a stelle e strisce. Il fatto è che se l’amministrazione Trump dovesse effettivamente realizzare il proprio piano di politica fiscale, particolarmente aggressivo e basato su una generale riduzione delle tasse, ci si potrebbe aspettare un ampliamento del deficit delle partite correnti con un annesso rafforzamento del dollaro. E se davvero Abe dovesse proporre a Trump misure per dare ulteriore slancio alla crescita Usa, il biglietto verde potrebbe diventare ancora più forte. Con conseguente disappunto del presidente americano, che sembra puntare a un dollaro debole (o se non debole non particolarmente forte) per potere spingere sulla leva del commercio internazionale. Ed ecco perché se, da una parte, Trump potrebbe entusiasmarsi lì per lì dinanzi alle proposte di Abe, dall’altra, nel lungo periodo, potrebbe risultarne infastidito, poiché il deficit commerciale con il Giappone potrebbe restare elevato.

KAZUHIRO NOGI/AFP/Getty Images

Il punto mensile sulle valute di Jci Capital, dall’eloquente titolo “Navigazione a vista”, descrive il dissidio tra le politiche volute da Trump, il cui effetto tende a essere quello di rafforzare il dollaro, e la sua volontà di indebolirlo: all’inizio del 2017 è stata minata “la convinzione che per il dollaro il nuovo anno avesse in serbo ulteriori guadagni dopo quelli portati a casa nella parte finale del 2016”. E questo perché, spiega Alessandro Balsotti, portfolio manager di Jci Capital, “un’azione politica che ha come obiettivo primario di  riportare produzione e posti di lavoro negli Stati Uniti non può tollerare un dollaro eccessivamente forte”. Detto questo, secondo Balsotti resta comunque “viva l’ipotesi che, nonostante l’intervento verbale, il dollaro sia comunque in grado di rafforzarsi grazie a ricette economiche fiscalmente espansive che saranno destinate comunque a generare divergenza di crescita e inflazione rispetto al resto del mondo e conseguentemente un ciclo di rialzi dei tassi relativamente aggressivo, rispetto alle attese, da parte della Fed”. Nel breve termine e andando ad analizzare in particolare il cambio con l’euro, tuttavia, secondo Balsotti, “qualche importante elemento di supporto a una buona performance prospettica del dollaro sembra essere venuto a mancare”.

Angela Merkel. Sean Gallup/Getty Images

Quanto allo yen, in genere inserito tra i beni rifugio per eccellenza in tempi di crisi, per l’esperto di Jci Capital, “continua a rivelarsi a tratti un buono strumento per ammortizzare le fasi di avversione al rischio ma, a differenza del franco svizzero, il rischio di discesa se non si verificheranno shock globali (in Europa o altrove), resta elevato e vulnerabile a un trend di strutturale indebolimento”. Deutsche Bank, soffermandosi sul cambio tra dollaro e yen, calcola che, dopo i minimi a 110 (yen per ogni dollaro) raggiunti di recente, nel breve periodo, ci possa essere un movimento verso 120-125, man mano che le politiche fiscali di Trump faranno effetto. Tuttavia, in area 120, Deutsche Bank non esclude la possibilità che le autorità giapponesi si attivino per limitare il deprezzamento della valuta nipponica.

Business Insider

Commenta su Facebook