Con l’avvicinarsi della data del processo internazionale contro il presidente Laurent Gbagbo, previsto per il 18 giugno, in cui la Corte penale internazionale dovrà decidere se incriminarlo per crimini contro l’umanità, si cerca di infangare, ancora di più, il suo nome. Nonostante sia emerso che gli uomini dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, hanno commesso crimini di guerra e contro l’umanità, l’unico imputato portato davanti ai giudici dell’Aja, ad un anno dalla fine della guerra civile, è Gbagbo, il presidente che si è ribellato alla Francia e agli Stati Uniti ricordando che la Costa d’Avorio ha diritto alla sua sovranità nazionale, alla proprietà delle risorse e all’autodeterminazione del suo popolo.
Oggi, il presidente Gbagbo, insieme alla sua famiglia e ai suoi sostenitori, paga a caro prezzo la sua insubordinazione. Nel tentativo di rafforzare le accuse contro di lui stanno girando da alcuni giorni notizie senza fondamento su attacchi dei suoi uomini contro villaggi nell’ovest e addirittura contro i caschi blu. Secondo i media embedded, cinque civili e sette caschi blu dell’Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio (Onuci) sono stati uccisi mentre cercavano di proteggere un villaggio dalle violenze “dei seguaci dell’ex presidente Laurent Gbagbo”. Come ha spiegato il capo della missione Onu, i caschi blu caduti nell’imboscata “facevano parte di una pattuglia che era in missione a sud della città di Taï, al confine con la Liberia, in una zona dove l’Onuci ha recentemente rafforzato la sua presenza a causa delle minacce di attacchi sulla popolazione civile”.
L’instabilità delle frontiere è sempre esistita e i seguaci dell’ex presidente poco c’entrano con quello che è avvenuto. Secondo la fonte di Rinascita, i veri colpevoli dell’attacco contro i caschi blu e contro i villaggi di Sakré e Nigré, a sud di Taï, sono le milizie burkinabè che arrivano a decine con camion dal Burkina Faso per appropriarsi delle piantagioni di cacao, di caffè e di palma da olio, in parte abbandonate dalla popolazione ivoriana. Il tutto avviene con il beneplacito del presidente Ouattara, di origine burkinabé. Intanto, l’uccisione dei caschi blu ha suscitato l’immediata condanna del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon. “Questi coraggiosi soldati sono morti in nome della pace” ha dichiarato Ban Ki Moon, che ha annunciato un’inchiesta sulla morte dei sette caschi blu, tutti cittadini del Niger.
Per timore di nuovi attacchi, migliaia di civili stanno abbandonando le proprie case e si stanno incamminando verso la città di Taï. Intanto, il governo liberiano ha annunciato la “chiusura immediata” della sua frontiera con il Paese ivoriano, rafforzando il dispiegamento dei propri militari, appoggiati dai caschi blu della Missione della Nazioni Unite in Liberia (Minul). Il ministro liberiano dell’Informazione, Lewis Brown, ha precisato che “tutti gli individui coinvolti in attacchi transfrontalieri saranno arrestati e consegnati alle autorità ivoriane”, ma “le attività umanitarie non saranno toccate dalla chiusura delle frontiere”.
Il tutto avviene pochi giorni dopo che l’organizzazione non governativa, Human Rights Watch, ha denunciato che miliziani ivoriani rifugiati in Liberia e mercenari liberiani in passato al soldo di Gbagbo “hanno reclutato bambini liberiani e hanno organizzato raid nelle regioni occidentali, uccidendo almeno 40 persone” da luglio 2011. Con la denuncia dell’ong statunitense, un mezzo di propaganda degli Usa, che hanno avuto un ruolo da protagonista nel colpo di Stato contro Gbagbo, si delinea un quadro perfetto per avallare la tesi del procuratore generale Ocampo contro Gbagbo e i suoi uomini. Ancora una volta, la verità viene infangata e i media embedded, come del resto le organizzazioni umanitarie al soldo delle grandi potenze, tacciono su quanto sta avvenendo in Costa d’Avorio.
La libertà di stampa non esiste più: i giornalisti che sostenevano Gbagbo sono stati uccisi o si trovano in prigione senza un’accusa precisa e senza poter essere assistiti da un avvocato. Ancora oggi i militanti del Fronte popolare ivoriano e i sostenitori di Gbagbo sono vittime di arresti arbitrati e di prelevamenti notturni dalle loro case. Molti sono stati uccisi, altri portati in carcere o nei campi di concentramento, il più famoso è quello nel quartiere di Yopougon, ad Abidjan. Nei campi di detenzione, tra cui quello del Campo di Gendarmeria di Kohogo, i prigionieri sono sottoposti a torture fisiche e psicologiche, a sevizie sessuali, alla trasmissione del virus dell’Aids. Secondo le testimonianze dei prigionieri, i sospettati vengono messi con la testa in grossi barili d’acqua e soffocati per estorcere confessioni. Violazioni dei diritti umani che il procuratore generale Ocampo si rifiuta di prendere in considerazione, individuando in Gbagbo l’unico colpevole dei mali della Costa d’Avorio. C’est la démocratie de l’Occident…
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