Coltivare la pace, in certe aree del mondo, non è un modo di dire. In Colombia, per esempio, l’agricoltura rappresenta la via d’uscita da una guerra che ha insanguinato il Paese per 52 anni, provocando 220mila vittime e quasi 7 milioni di sfollati.
Oltre alle coscienze, il conflitto armato tra il governo e i guerriglieri delle Farc ha segnato in profondità l’ambiente. Dal 1990 al 2013 il 58% della deforestazione ha interessato le regioni dove si combatteva, mentre gli attacchi agli oleodotti hanno provocato perdite per 4,1 milioni di barili: un danno ecologico sedici volte maggiore di quello causato dall’affondamento della Exxon Valdez.
Oggi finalmente le armi tacciono, ma la guerra lascia dietro di sé una realtà sociale in cui più di 4,4 milioni di colombiani si trovano in condizioni di insicurezza alimentare. Sia il presidente Santos, da poco insignito del premio Nobel per la Pace, sia gli ex oppositori armati sanno che la rinascita del Paese parte da una riforma rurale, per assicurare la terra a quel 60% di campesinos ancora privi di titoli di proprietà formali.
La Colombia coltiva meno di un terzo dei 26 milioni di ettari di terreno fertile di cui dispone. Duecentomila ettari, in particolare, sarebbero occupati da coltivazioni di marjuana, coca e papavero da oppio, fonte di sostentamento per 100mila famiglie. Ma secondo l’Onu un’alternativa concreta può venire oggi dalla conversione dei terreni, grazie allo straordinario patrimonio di biodiversità che la guerra ha impedito di valorizzare per decenni.
Non ci sarà pace fino a quando esisterà la fame, ha detto pochi giorni fa Santos alla Fao: per questo si lascia ai custodi della terra il compito di far germogliare e crescere la pace. Con la speranza che il loro lavoro sia un esempio a cui il mondo intero saprà guardare.
Gaetano Pascale
g.pascale@slowfood.it
Da La Stampa del 8 gennaio 2016