Il 2016 è iniziato con una forte pressione sulle banche e pur non avendo riguardato solo quelle italiane, queste, in borsa,  sono risultate più colpite rispetto a alle banche europee.

Alla base del sentiment negativo sulle banche italiane, ci sono fattori ben noti:

  • la risoluzione delle 4 banche dello scorso novembre ha generato un clima di sfiducia dei risparmiatori e degli operatori;
  • l’entrata in vigore delle norme sul bail-in ha accentuato la sfiducia e la tensione su quelle banche percepite meno solide e, più in generale, su tutto il comparto bancario;
  • la scarsa redditività del sistema bancario, anche per via dei bassi tassi di  interesse;
  • il fardello delle sofferenze bancarie che stenta a stabilizzarsi, anche a causa della ripresa stagnante dell’Italia che certamente non aiuta;
  • il contesto globale di bassa crescita e le tensioni sui mercati finanziari;
  • il peso dei titoli di debito pubblico in pancia alle banche italiane, che le rende ancor più vulnerabili.

Sotto questo ultimo fronte, aiuta molto le manovre espansive della Bce che schiaccia i rendimenti e quindi mantiene i prezzi elevati. Ma nelle settimane passate, su iniziativa tedesca, si è affacciata la possibilità di porre un limite all’acquisto dei titoli di stato da parte delle banche commerciali, e questo ha sicuramente contribuito al deterioramento del sentiment.

Fatto è che la fragilità del sistema bancario è ormai riconosciuta anche dagli stessi fondatori del fondo Atlante: il fondo nato per soccorrere le banche impegnate negli aumenti di capitale, con la funzione “accessoria” di favorire anche lo smobilizzo dei Npl dai bilanci delle banche. Il quale Atlante, come noto, ha avuto difficoltà nel raccogliere i capitali preventivati (4.5 miliardi raccolti, contro i 6 originariamente previsti) e che ha già impegnato 1.3 miliardi di euro per l’aumento di capitale della Popolare di Vicenza e potrebbe impegnarne ancora uno per l’aumento di Veneto Banca. Secondo autorevoli commentatori, l’intervento di Atlante nell’aumento di capitale della Popolare di Vicenza haevitato il baratro, proprio perché ha evitato che il fallimento dell’aumento di capitale della banca veneta innescasse un effetto domino.
Tuttavia, se da un lato Atlante ha evitato il disastro, dall’altro, le modeste dimensioni del fondo inducono a qualche dubbio e a qualche preoccupazione. Cosa potrebbe accadere se una banca di dimensioni un po’ più grandi dovesse avere qualche problema? E’ evidente che Atlante, perlomeno nella connotazione attuale, non avrebbe i mezzi necessari per intervenire. I dubbi sono stati espressi anche da varie agenzie di rating, che hanno sottolineato  che esistono possibili impatti negativi sul merito di credito delle banche che parteciperanno al fondo attivamente.

In effetti, il mercato non sembra essere tanto convito che le iniziative intraprese (dalle Gacsal fondo Atlante) possano ritenersi sufficienti  per la stabilizzazione del sistema bancario italiano, o parte di esso. Infatti, se osserviamo l’indice Ftse Italia All Share Bank, questo è ritornato quasi ai livelli precedenti la nascita del fondo Atlante e ben al di sotto dei livelli registrati in occasione dell’ampliamento del piano di acquisto titoli da parte della Bce, proprio a testimoniare il clima di sfiducia che circonda il comparto bancario italiano.

null
Alle preoccupazioni sopra espresse, si aggiungono anche quelle derivanti da un eventuale rallentamento economico più marcato di quanto previsto o, ancora peggio, da una futura recessione, che sarebbe affrontata dalle banche italiane in condizioni di fragilità in un contesto, quello italiano, altrettanto debole a causa dei noti problemi che affliggono l’Italia.

Contrariamente a quanto accadde in occasione della crisi del debito del 2011 e 2012, nel caso dovesse verificarsi una crisi bancaria, la Bce potrebbe  fare assai poco per arginare gli effetti che potrebbero prodursi.
A quell’epoca, il “whatever it takes” lanciato da Draghi a luglio del 2012 (che poi portò alla nascita dell’Omt) cambiò le sorti della della crisi e, quindi, anche della moneta unica, altrimenti destinata a dissolversi.
Nel corso degli ultimi anni la Bce ha cambiato volto. Profondamente. Fino a un paio di anni fa, era impensabile che la banca centrale potesse acquistare debito dei paesi appartenenti all’unione monetaria. Da oltre un anno, la Bce sta comprando debito pubblico, favorendo la caduta dei tassi di interesse. A questi acquisti, di recente, al fine di generare inflazione (necessaria per diluire i debiti) si sono sommati anche gli acquisti di obbligazioni corporate.
Ma questa volta è diverso.
Alla Bce non è consentito soccorrere i sistemi bancari dei vari paesi, se non attraverso la liquidità di emergenza (Ela). Ma poiché quella che sta investendo i sistemi bancari di alcuni paesi (tra cui l’Italia) non é una crisi di liquidità, ma una crisi di capitali (erosi dall’esplosione delle sofferenze), ecco che la Bce potrebbe fare assai poco nel caso dovesse verificarsi una vera e propria crisi bancaria, magari in occasione di una prossima recessione.
Poiché la fiducia sul sistema bancario è fattore fondamentale per una economia, in caso di crisi, dovranno essere gli Stati ad andare in soccorso dei rispettivi sistemi bancari. D’altra parte, le stesse norme previste dalla BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive) prevedono la disapplicazione (almeno parziale) delle norme sul bail-in in caso di rischi per la stabilità finanziaria. Inoltre, perfino gli esponenti di di Bankitalia auspicano la sospensione e la modifica delle norme sul bail-in, proprio a causa degli effetti destabilizzanti che potrebbero innescarsi in caso di applicazione.. Lo stesso articolo 107 del Trattato di Lisbona dispone che possono considerarsi compatibili con il mercato interno gli aiuti di stato destinati “a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro.” 

Ed è il caso che interesserebbe l’Italia qualora dovesse verificarsi una crisi bancaria.

Quindi, posto il fatto che esistono gli strumenti per fronteggiare una crisi delle banche su ampia scala, in questo caso, sarebbe lo Stato che dovrebbe intervenire nel capitale delle banche. Ma lo stato italiano non ha soldi per poterlo fare.

Tuttavia, è anche vero che, nonostante l’economia stagnante e il debito pubblico ormai vicino al 135% del Pil, l’Italia non ha problemi a rinnovare il debito in scadenza; anzi, riesce anche a collocare i titoli a tassi eccezionalmente bassi, proprio grazie alle manovre espansive della Bce. Quindi, in buona sostanza, lo Stato (almeno al momento) non ha difficoltà a finanziarsi sul mercato per poter intervenire (temporaneamente) nel capitale delle banche che dovessero trovarsi in difficoltà.
Ma le manovre espansive della Bce non saranno eterne e ancorché la stessa Bce preveda che i tassi di interesse rimarranno bassi per un periodo prolungato, tra meno di un anno dovrebbe terminare il quantitative easing.
Non solo, ma la presidenza di Draghi alla Bce scadrà nel 2019. E’ opinione di chi scrive che Draghi sarà sostituito da un tedesco, probabilmente Jens Weidmann, il falco a capo della Bundesbank. Se questo scenario dovesse verificarsi, sarebbe assai illusorio (e pericoloso) pensare che Weidmann possa avere la stessa abilità (possibilità/volontà) di Draghi nell’implementare politiche monetarie che stanno consentendo a stati di finanziarsi a tassi praticamente a zero. Anzi, proprio di recentemente, in Germania, si è aperto un fronte molto critico nei confronti dell’operato della Bce, accusata di danneggiare i risparmiatori tedeschi per via dei tassi eccezionalmente bassi.
Considerato che soluzioni private risultano di difficile applicazione (lo abbiamo visto con la nascita di Atlante, che non è riuscito a raccogliere i capitali originariamente previsti), data la finestra di opportunità aperta dalle manovre espansive della Bce, ritengo che l’Italia non dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di irrobustire il sistema bancario, visto che, come detto, l’opportunità aperta dagli interventi di politica monetaria si traduce nella possibilità di finanziarsi a tassi eccezionalmente bassi, senza riscontrate problemi di domanda nel collocamento di titoli.

E’ chiaro che una soluzione del genere, oltre a comportare uno scontro con Bruxelless (e quindi? chi se ne frega), comporterebbe un’implicita ammissione di colpevolezza da parte della classe politica, responsabile, in tutti questi anni, di aver inopportunamente decantato la solidità (latente) del sistema bancario  (o parte di esso) e di aver sottovalutato le varie problematiche che affliggono il sistema bancario italiano.

Tuttavia andrebbe ricordato quanto siano risultate incaute, irresponsabili e negligenti le manovre di austerità imposte a decorrere dal 2011.  Se a un sistema già fragile, peraltro in un contesto di debolezza di altre economie,   si imprime una feroce stretta fiscale (come quella di Monti, appunto) il minimo che ci si possa aspettare è che questa produca degli effetti collaterali, peraltro ampiamente visibili nella distruzione economica prodotta.
E gli effetti collaterali li stiamo toccando con mano anche attraverso la fragilità di molte banche. Già da quell’epoca, sapendo che la distruzione dei redditi avrebbe prodotto l’esplosione delle sofferenze bancarie, il governo avrebbe dovuto agire per creare una barriera protettiva a favore delle banche, come è stato fatto in altri paesi della zona euro, in un contesto normativo più favorevole rispetto a quello attuale (le regole sul bail-in, a quell’epoca, non esistevano).

Invece, si è preferito nascondere la polvere sotto al tappeto, salvo poi accorgersi che il sistema bancario non è così solido come si voleva far credere. Ma la responsabilità più rilevante sta nel fatto che, nel frattempo, pur conoscendo l’evoluzione affatto rassicurante delle sofferenze bancarie (che avrebbe portato all’erosione del capitale della banche) si sono recepite le norme sui salvataggi bancari a carico dei risparmiatori  e, fatto ancora più grave, si sono versati circa 60 miliardi di euro (garanzie incluse)  nei vari fondi di salvataggio, che sono serviti per salvare le banche di altri paesi (Francia e Germania), esposte nei confronti delle banche greche e spagnole. Insomma, una catena interminabile di responsabilità che rappresentano il trionfo dell’improvvisazione (nel migliore dei casi), oppure quello della malafede (nel peggiore dei casi).

Magari a molti di voi non piacerà la soluzione temporanea dello Stato nel capitale delle banche in difficoltà e potreste anche obiettare che i livelli del debito pubblico sono già troppo elevati. Sicuramente avete ragione, ma  vorrei porvi la domanda che segue:
posto che soluzioni private sono di difficile applicazione date le dimensioni di capitali necessari (lo Abbiamo visto con la nascita di Atlante), preferite un debito elevato con un sistema bancario in difficoltà (solo per usare un eufemismo) pronto a scricchiolare in occasione di una prossima crisi, o un debito eventualmente un po’ più alto ma con un sistema bancario sanificato, più solido e in grado di affrontare con maggior serenità un’eventuale prossima crisi? Se da un lato l’intervento pubblico potrebbe determinare l’aumento del debito, dall’altro l’intero sistema Italia ne riuscirebbe rafforzato: verrebbe ristabilita la fiducia nel sistema bancario che a qual punto potrebbe guardare con più favore il cotesto economico, e quindi aumentare il credito all’economia. Questo, unitamente alle riforme di cui l’Italia ha bisogno, contribuirebbe ad innescare un meccanismo virtuoso che avrebbe riflessi positivi sia sull’economia e sui conti pubblici.

Sotto questo punto di vista, qualora dovesse presentarsi un nuova recessione, l’alternativa all’inerzia sarebbe il disastro.

Commenta su Facebook