Il radicalismo islamico che si trasforma in jihadismo è un fenomeno che può essere considerato una questione internazionale. Nessuno ne può essere tecnicamente immune. Non è allarmismo, né terrorismo psicologico: ma un dato di fatto cui le forze di sicurezza e l’intelligence di tutti gli Stati devono approcciarsi in modo lineare. È un processo di comprensione che non ha tempi brevissimi, e che deve mettere in stretta correlazione la prevenzione con la repressione, quindi la sicurezza con la giustizia. Per far questo, è necessario partire da alcuni dati rilevati dal National Bureau of Economic Research (Nber), ente privato con sede in Massachusetts.
Le ricerche condotte dall’istituto nordamericano prendono in considerazione i Paesi da dove sono partiti i cosiddetti foreign fighters alla volta di Siria e Iraq. Sono, pertanto, Paesi non direttamente coinvolti nello scenario della guerra al Califfato. Dai dati in possesso dell’istituto, il Paese da dove sono giunti più miliziani negli ultimi anni è stato la Tunisia. Il Paese, che ha dato origini alle cosiddette primavere arabe, ha esportato un numero pari a circa settemila jihadisti, che sono andati a ingrossare le fila del Daesh nella loro guerra a Damasco.
Dopo la Tunisia, i Paesi più coinvolti nell’esportazione di jihadisti sono l’Arabia Saudita, la Russia, la Turchia e la Giordania. Il caso russo, chiaramente, è quello più interessante, perché dimostra l’importanza del ruolo assunto dalla lotta al terrorismo internazionale nell’agenda del Cremlino. Aree quali la Cecenia e il Dagestan, ma anche le periferie dove vivono molti cittadini delle repubbliche dell’Asia Centrale, sono diventate nel tempo una fucina enorme di miliziani islamisti. Secondo il Nber dalla Russia sono partiti almeno duemila jihadisti per la Siria, un numero che, naturalmente, preoccupa l’intelligence russa, in caso questi suoi stessi cittadini dovessero tornare in patria a conflitto finito.
L’Arabia Saudita e la Turchia sono casi altrettanto interessanti, poiché dimostrano quanto il problema dello jihadismo sia un tema che questi Stati hanno nel tempo ampiamente tralasciato e per certi versi volutamente non ostacolato. I due Stati hanno visto partire dal loro territorio rispettivamente circa 2500 e 2100 miliziani. Naturalmente parliamo di numeri ufficiali o comunque possibili da censire, pertanto va opportunamente premesso che potrebbero anche essere visti al ribasso. Comunque, soltanto da Turchia e Iraq sono partiti alla volta del Califfato certamente almeno 4600 jihadisti. A questi vanno poi aggiunti i circa duemila giordani, nonostante il loro Paese non venga mai coinvolto mediaticamente quale soggetto interessato alla guerra al Daesh.
In Nord Africa, oltre alla Tunisia, vanno inoltre rilevati i numeri piuttosto alti provenienti da Egitto e Marocco, mentre vanno evidenziati i pochissimi jihadisti provenienti dall’Algeria. Un contrasto interessante se si pensa che mentre il Marocco ha assistito alla partenza di circa 1700 foreign fighters, l’Algeria al contrario ne ha esportati circa duecento. L’Egitto ha invece ufficialmente segnalato la partenza di 600 miliziani, ma sono in molti a dubitare dei dati ufficiali, ritenendo che siano almeno un migliaio i mercenari provenienti dal Paese.
Anche la Cina non è immune a questo fenomeno. In particolare, il problema qui nasce dalla questione degli uiguri. L’etnia turcofona che popolo la regione dello Xinjiang è stata una generatrice di jihadisti pronti a partire alla volta del Medio Oriente. Nber calcola che vi siano tra le truppe di Al Baghdadi almeno trecento cinesi. Molti di questi sono utilizzati in particolare quale forza di polizia all’interno delle città chiave del Califfato.
Per quanto riguarda l’Europa, i dati non sono per nulla confortanti. Dalla Francia, sempre secondo la ricerca americana, sarebbero partiti circa 1700 foreign fighters. Dalla Germania ne sarebbero partiti almeno 750, e lo stesso numero sembra essere, ufficialmente, quello proveniente dal Regno Unito. Il Belgio e la Svezia sarebbero invece attestati su un numero di circa 350 ciascuno. In questo senso, l’Europa meridionale è meno interessata. La ricerca del Nber vede l’Italia quale base di partenza di circa un’ottantina di jihadisti, un numero estremamente ridotto rispetto a quelli di altri Paesi, soprattutto in rapporto alla popolazione del nostro Paese. La Spagna, secondo la ricerca, avrebbe invece censito un numero intorno ai duecento miliziani, dunque più del doppio di quelli italiani.
Il punto centrale della ricerca è a questo punto l’analisi su un concetto chiave per comprendere il fenomeno jihadista, che è l’assoluta internazionalizzazione del fenomeno. Un’internazionalizzazione che, dall’altro lato, viaggia su binari non omogenei. In essa s’inquadrano profili etnici (come gli uiguri per la Cina), motivazioni religiose e politiche per i Paesi mediorientali e nordafricani, e profili religiosi e sociali per quanto riguarda l’Europa. Ciò che invece non sembra interessare il fenomeno dei foreign fighters, è la situazione economica del Paese. È anzi facile constatare come i numeri siano del tutto slegati dal benessere dello Stato d’origine. Così come sono eterogenee le azioni di contrasto attuate dai Paesi coinvolti. C’è chi combatte sul campo la guerra contro il terrorismo internazionale, chi la ritiene una questione interna, diplomatica. C’è poi chi ne fa un’arma per abbattere nemici scomodi. Ed è probabilmente proprio per la differenza di prospettive sul terrorismo che esso si radica e sembra essere in continua evoluzione.