Nei cinque minuti che s’impiegheranno per leggere quest’articolo, Alitalia avrà perso, all’incirca, 7mila euro. A un primo sguardo potrebbe apparire una cifra di poco conto ma se si moltiplicano quei 7mila euro per i cinque minuti che stanno in un’ora s’arriva ad oltre 80mila euro, in un giorno due milioni, in un anno a settecento milioni di euro; tanti ne ha bruciati Alitalia nel 2016.
Per capire di quale malattia soffra la compagnia di bandiera si devono tenere in conto queste cifre: nel quarantennio che va dal 1974 al 2014 Alitalia ha ottenuto aiuti pari a 7,4 miliardi di euro, ciò significa che ogni anno i contribuenti hanno versato 180 milioni di euro, circa mezzo milione al giorno per quarant’anni. Con questi numeri è giusto parlare di un intervento pubblico in suo favore? I manuali di economia direbbero di no, anche considerando il fatto che da più di dieci anni è una compagnia privata.
Venerdì scorso s’è raggiunto l’ennesimo accordo, anzi, preaccordo fra azienda e sindacati per tentare di salvare Alitalia dal fallimento: fra giovedì e lunedì il piano sarà sottoposto all’approvazione dei lavoratori, su cui sarà scaricato per l’ennesima volta il peso del “risanamento”; solo così gli azionisti (Etihad e le banche Unicredit e Intesa Sanpaolo) investiranno due miliardi per impedire che gli aerei restino a terra e si apra la procedura di commissariamento, anticamera della liquidazione.
In breve, il piano prevede 1.700 esuberi di cui 980 potranno usufruire della cassa integrazione a rotazione; peggiore il destino di 600 contratti a tempo determinato che non saranno rinnovati e di 140 licenziamenti fra i dipendenti delle sedi estere. Inoltre, i dipendenti che rimarranno subiranno un taglio (ancora un altro) medio dell’8% sulle retribuzioni oltre ad altri sacrifici contrattuali.
È l’ennesimo piano di risanamento di una società da sempre gestita in maniera a dir poco sbagliata senza che mai nessuno pagasse realmente per i disastri. Una società chiamata ad operare in un ambiente estremamente concorrenziale, quello del trasporto aereo, ma con addosso sprechi e gestione del personale da carrozzone pubblico della peggiore specie. Una società passata di mano in mano senza mai l’intenzione vera di rilanciarla.
Adesso il rischio è che l’accordo, l’ennesimo, venga accettato e la giostra riparta fra gli applausi, salvo fermarsi di nuovo fra un paio d’anni con nuoci tagli, nuovi sacrifici per i lavoratori ed un’altra barca di denaro da bruciare perché tutto rimanga come prima o pressappoco.
L’ambiente del trasporto aereo non è favorevole ad Alitalia: per lei la concorrenza feroce delle low cost, tratte sbagliate e incapacità di trattare con le società aeroportuali s’aggiungono a problemi antichi e nuovi, rendendo assai improbabile (leggi irrealistico) che quella che era la compagnia di bandiera si risollevi.
Da ciò che si sta apparecchiando Alitalia s’appresta a divenire un’altra Ilva, un mostro malato che nessuno ha voluto rimettere in piedi e su cui sono state sprecate montagne di soldi, salvo alla fine, dopo tante smentite ufficiali, finire svenduto all’acquirente rimasto in attesa del momento buono che, dai soliti sussurri, parrebbe la Lufthansa.
Quella di Alitalia è l’ennesima storia all’italiana, fatta d’incapacità, ipocrisia, interesse e tanto cinismo, che dopo averli illusi in tanti modi, finirà per fregare migliaia di lavoratori e privare il Sistema Italia di un asset strategico. Nulla di nuovo in fondo, come sempre.
Sebastiano Lo Monaco