Hillary Clinton ha dichiarato il proprio appoggio a una nuova regolamentazione proposta dalla sinistra democratica sul tema della regolamentazione del lobbying, segnando un punto a favore dei progressisti liberal che sono sempre più un cavallo di battaglia della ex first lady per la candidatura alle Presidenziali del 2016.

Il Bill presentato dal senatore del Wisconsin Tammy Baldwin e sponsorizzato anche dalla senatrice Elizabeth Warren intende attenuare il meccanismo delle revolving doors tra Wall Street e Washington. La Clinton conviene nell’affermare che la fiducia degli americani nell’establishment istituzionale “si sta erodendo. Il popolo americano deve essere messo in condizione di fidarsi di ogni persona che lavora a Washington, dal Presidente fino ai membri delle agenzie governative, mettendo davanti a ogni altra cosa l’interesse generale”.

Obiettivo del Bill è restringere le occasioni di influenza da parte del settore privato nei confronti di quello pubblico, in particolare restringendo decisamente il meccanismo dellerevolving doors. L’appello della Clinton è stato immediatamente appoggiato da diversi gruppi progressisti, quali Democracy for America, Progressive Change Campaign Committee, American Family Voices e CREDO Action.

Anche gli altri candidati democratici hanno appoggiato il Bill. Il senatore del VermontBernie Sanders ha da sempre supportato la limitazione dell’attività dei lobbisti a Washington, così come l’ex governatore del Maryland Martin O’Malley. La proposta di regolamentazione proibisce agli ex membri delle istituzioni i cosiddetti “paracadute d’oro”, i bonus che arrivano dal settore privato per l’assunzione di dipendenti pubblici. Inoltre viene prolungato il periodo in cui le revolving doors sono vietate fino a due anni. Una norma simile è prevista per il percorso inverso: i regolatori finanziari per due anni non potranno favorire ex impiegati passati al settore privato.

I gruppi progressisti, in particolare Democracy For America, stanno conducendo una forte campagna di moral suasion nei confronti della Clinton per l’appoggio dichiarato alla proposta. Ma non è solo la candidata democratica a “sparare sui lobbisti” durante la propria campagna elettorale.

Nello scorso mese di luglio, Jeb Bush (candidato repubblicano) in un discorso alla Florida State University ha denunciato le lobby di Washington, secondo lui un potere eccessivamente preponderante nella democrazia americana tale da aver tolto indipendenza alla stessa Presidenza e al Congresso. “Serve un Presidente che cambi la cultura della capitale nazionale”, ha dichiarato.

La scorsa settimana anche Donald Trump, altro candidato del GOP, si è schierato contro i lobbisti e gli interessi di parte rilasciando alcune dichiarazioni alla CBS: “ho rifiutato una donazione di 5 milioni da un lobbista, sono soldi che non prenderei mai. Cambierò il sistema, non voglio essere legato ad alcun interesse, il nostro Paese rischia in questo modo di non avere più una middle class”.

La “caccia al lobbista” è uno sport che lo stesso Presidente Barack Obama ha praticato negli ultimi anni. Nel 2011, Obama dichiarava al NY Times che non avrebbe preso soldi dai grandi gruppi di pressione americani e si è impegnato a porre un freno all’influenza corruttrice dei gruppi di interesse. Salvo poi, però, affidarsi ad alcuni di loro come Sally Susman, manager della casa farmaceutica Pfizer, per attività di fundraising e comunicazione per la campagna elettorale di mid-term. In questi giorni, poi, Obama stesso si trova ad appoggiare ed essere appoggiato da diversi gruppi di pressione che chiedono l’implementazione degli accordi sull’Iran, diventando egli stesso “primo lobbista” (espressione coniata dal prof. Petrillo in occasione dell’attività di promozione della riforma sanitaria del 2010) nei confronti dei membri del Congresso in favore dell’accordo sul nucleare (come accaduto nei confronti del deputato dello stato di New York Jerrold Nadler,che ha poi appoggiato l’accordo).

In realtà il mercato del lobbying negli Stati Uniti è ancora molto vasto e influente. Secondo un rapporto della ONG Open Secrets, pubblicato lo scorso giugno, la spesa in lobbying nei confronti del Congresso è di circa 1,6 miliardi di dollari per il primo semestre 2015: una cifra in linea rispetto agli anni precedenti, per un numero di impiegati nel settore che si aggira attorno ai 10.000 (per rimanere, però, ai lobbisti professionisti e solo al livello federale, tralasciando il livello locale). Come riportato da un articolo di Repubblica, il lobbying rimane un’attività è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti da essere scherzosamente definita (con una tipica espressione slang) as American as apple pie.

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