Diceva Mao Tze Tung, uno che di politica e di gestione delle masse se ne intendeva abbastanza, che quando “grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è favorevole”. Verrebbe da chiedersi per chi sarebbe favorevole la situazione, ma visto il soggetto in questione, non c’è dubbio che l’interpretazione più accreditata è quella che vede despoti, dittatori, potenti in generale avvantaggiarsi enormemente dal caos e dal panicoscatenati tra la gente. Gli Stati Uniti hanno chiuso per ferie il loro governo federale e l’intero apparato pubblico. La Germania non riesce ancora a formare un governo decente. In Italia il governo praticamente non esiste e non è mai esistito, eppure la gente si appassiona molto alle vicende di questi cialtroni impenitenti chiamati a torto “politici”, credendo davvero che dall’esito delle loro farsesche diatribe mediatiche, utili soltanto per aumentare l’audience di qualche sgangherata trasmissione televisiva, possa dipendere il loro futuro. E ignorando invece ostinatamente il fatto più semplice: il futuro purtroppo è stato già scritto a chiare lettere in tutto il mondo e ad un certo punto bisogna cominciare a prenderne atto.

La democrazia è un sistema di governo troppo costoso, dispersivo, egualitario e va abolita per decreto con il consenso unanime, a volte inconsapevole e involontario, di coloro che più beneficiavano degli agi della stessa democrazia. Un paradosso che trova giustificazione appunto nel caos culturale con cui siamo stati buggerati e raggirati negli ultimi decenni. Quasi dappertutto sono state infatti le fasce più deboli e indifese della popolazione, le classi medie impiegatizie, gli operai sfruttati e sottopagati ad erigere a loro paladini i despoti, gli oligarchi, i plutocrati, i banchieri che hanno operato e continuano a lavorare alacremente per distruggere lo stato di diritto, fondamento della democrazia. L’attività di propaganda e disinformazione è stata così capillare e pervasiva da indurre i popoli di tutto il pianeta a parteggiare per coloro che più disprezzano le esigenze dei popoli, la giustizia sociale e il benessere diffuso. E’ stato addirittura coniato il termine “populista”, accompagnato spesso dal più tecnico “demagogo”, per attaccare quei pochi che ancora si affannano per difendere le istanze del popolo vessato. E non di rado capita pure di essere accusati di “populismo” dai membri più emarginati, isolati e umiliati del popolo. Ci sarebbero insomma tutti gli elementi per deporre le poche armi spuntate rimaste e lasciarsi trascinare dalla deriva.

Eppure, proprio nel punto più basso della parabola discendente della democrazia, qualcosa è avvenuto. Qua e la accademici, intellettuali, semplici cittadini, me compreso, si sono risvegliati dal torpore e sono insorti per fare sentire la loro voce e spiegare agli altri cosa stava accadendo. Un movimento oltremodo disomogeneo e disorganizzato che ha la fortuna ma anche il limite di essere sorto spontaneamente, senza alcuna precisa programmazione e definizione degli obiettivi condivisi. Ognuno va per la sua strada e tutti credono di remare dalla parte giusta più e meglio degli altri. Il nemico comune è la mistificazione e il ribaltamento della verità dei fatti, ma i mezzi utilizzati da ognuno sono tra i più svariati: associazioni culturali, movimenti politici, think tank, apparizioni televisive, convegni, assemblee costituenti, manifesti, blog, siti internet. Il centro del contendere rimane però quasi sempre lo stesso: l’economia e i rapporti di subalternità fra politica ed economiaE’ la politica che deve governare l’economia oppure sono i dati economici a vincolare l’azione politica? Per rispondere a questa domanda e spiegare come la penso comincio una breve dissertazione sui rapporti fra Etica ed Economia, perché dal malinteso e dalla commistione che sorge continuamente fra gli ambiti morali e scientifici, possono essere poi dedotti a cascata tutte le corrette gerarchie e interpolazioni fra azioni politiche ed economiche.
Se l’economia fosse una scienza esatta non ci sarebbe di che dibattere: è impossibile dare un giudizio di valoresul fatto che 2 più 2 fa 4. Questa è una verità assoluta valida a qualunque latitudine e in qualsiasi epoca storica. Eppure trattandosi di una scienza sociale, influenzata dai comportamenti dei singoli individui, delle aggregazioni di individui e delle realtà istituzionali, in economia non è detto che 2 più 2 faccia 4. Può fare 5 in Australia e 6 in Svezia, e 8 oggi e 10 domani. Una volta date certe ipotesi di partenza e i vincoli del problema, il risultato rimane nella maggior parte dei casi un mistero imponderabile, che può essere approssimato solo utilizzando strumenti statistici o l’analisi delle serie storiche. Dare un giudizio di valore ad una determinata decisione economica è quindi estremamente difficile non tanto perché abbiamo a che fare con verità assolute e neutre come avviene nella matematica, ma perché l’esito di ogni singola operazione economica potrebbe rivelarsi infinitamente distante dalle intenzioni che l’hanno generata. I dubbi sulla buona o cattiva fede di coloro che si assumono la responsabilità di fare scelte economiche dovrebbero essere quindi all’ordine del giorno, dato che nessuno, nemmeno il più abile degli analisti economici, sa con esattezza dove porterà una certa direzione intrapresa. Ciò significa che dobbiamo astenerci da fornire giudizi di valore all’economia? Non esattamente, in un’accezione che spiegheremo meglio più avanti.

Ad ogni modo, si può già intuire che in queste condizioni di estrema incertezza qualsiasi scelta economica che tende a raggiungere un certo obiettivo può rivelarsi un successo o un fallimento in base alla risoluzione di un numero elevatissimo di variabili. Ecco per quale motivo l’azione economica delle autorità istituzionali preposte (governi e banche centrali) dovrebbe essere quanto più possibile libera da vincoli, flessibile, discrezionale, nonché coordinata in maniera armonica per adattarsi e rimediare continuamente alle innumerevoli deviazioni dai risultati ricercati. Espandere il disavanzo pubblico per migliorare l’occupazione è una scelta economica corretta e condivisibile, che può però rivelarsi con il tempo dannosa se non vengono monitorati i saldi di bilancio con l’estero e ove possibile aggiustati gli squilibri con nuove azioni economiche di tipo monetario o istituzionale (svalutazioni, incentivi e sussidi alle imprese locali, dazi alle importazioni). Essendo un sistema complesso e aperto agli scambi con l’estero, l’economica di un paese dovrebbe essere regolata con una quantità illimitata di strumenti e accorgimenti correttivi, senza porre veti pregiudiziali o vincoli ideologici che finiscano poi per vanificare qualsiasi buona intenzione dei decisori istituzionali. Gli strumenti sono economici, ma la scelta di rimanere fermi a guardare o agire in tempo per riparare agli errori è sempre di carattere etico e politico. Più un paese viene incatenato con vincoli economici e finanziaritetti al deficit pubblico o addiritturapareggio di bilanciolimiti di debito pubblicoapertura deregolamentata ai mercatitassi obiettivo di inflazione e occupazionemoneta unica, maggiori sono le possibilità che il paese raggiunga rapidamente unostato di paralisi politica ed istituzionale, capace di annichilire ogni pallido tentativo di reazione e riscatto.

In questo senso è possibile ammettere una stretta correlazione fra Etica ed Economia, dal momento che blindarel’azione economica con vincoli preimpostati  significa annientare la prassi politica, la quale non può più agire nei termini e nei limiti consentiti dalle carte costituzionali nazionali per garantire i principi etici, i diritti democratici e il benessere di un’intera collettività. Il processo è ormai irreversibile ed il termine “paralisi”, arresto (in inglese “shutdown”), è quello che sintetizza meglio la condizione politica dei più sviluppati paesi occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa. La politica non può fare nulla in termini di pianificazione economica, perché quest’ultima attività cruciale e fondamentale per la coesione sociale di uno Stato è stata da tempo completamente demandata a enormi gruppi di potere decisionale privati, che possono essere di volta in volta identificati con le multinazionali, i colossi bancari, assicurativi, finanziari, o più genericamente con il termine “mercati”.
In fin dei conti, impedire ai decisori pubblici di intraprendere un qualsiasi programma di pianificazione economica, non significa che la pianificazione economica non esista tout court, ma che quest’ultima venga decisa nelle segrete stanze di comitati d’affarigruppi di pressione e di poterelobbiesconsigli di amministrazione. E siccome questi ultimi, a differenza della politica che “dovrebbe” avere come unico obiettivo il bene comune, esprimono spesso interessi molteplici e contrastanti, ecco che la conseguenza più immediata diventa la paralisi, il caos, la confusione istituzionale. Dove non si capisce più chi difenda cosa e quali politici siano collusi o estranei al sistema. Uno stato di cose che danneggia ovviamente le fasce più deboli della popolazione, le quali non trovando più nella politica una sponda sicura per la tutela dei loro diritti rimangono in balia dei poteri forti e dell’inesorabile “massacro sociale” perpetrato ai loro danni.
Come fa notare il professore di economia Giulio Palermo, nel suo brillante saggio “Il Mito del Mercato Globale-Critica delleTeorie Neoliberiste”, che mette in luce con rigore e in maniera accessibile a tutti le distorsioni e le aberrazioni dei dogmi e dei falsi miti della dottrina economica neoliberista, con cui ci hanno riempito la testa in questi ultimi anni: “le imprese, più sono grandi, più pianificano. Le grandi multinazionali pianificano tutto: produzione, vendita, commercializzazione, trasporto, variabili finanziarie, assistenza alla clientela, carriere interne, rapporti con le altre imprese, rapporti con la politica, rapporti con gli stati. Né se ne può fare unaquestione di dimensione, visto che le multinazionali di oggi hanno bilanci comparabili e, in molti casi, superiori a quelli di interi paesi e spaziano spesso nella produzione di beni alquanto diversi tra loro.” E ancora, in difesa della pianificazione pubblica centralizzata dell’economia: “Stando così le cose, non si capisce allora come mai i pianificatori capitalisti (i grandi manager delle multinazionali) riescano a gestire così efficacemente l’informazione esistente, mentre per il ministro dell’economia del paese socialista ciò costituisca un problema insormontabile; né, più in generale, si spiega perché, quando la pianificazione è capitalista, essa è sinonimo di efficienza e quando diventa invece socialista è sinonimo di impossibilità.
Non è un caso che siano state le grandi aziende multinazionali ad imporre agli Stati di funzionare a loro immagine e somiglianza, mettendo ai posti di comando loro affiliati, banchieri, managers, imprenditori e costringendo il decisore pubblico ad utilizzare prassi di gestione contabile privata, come il pareggio di bilancio. E per meglio suggestionare e plagiare le masse, sono state addotte spesso giustificazioni “moralistiche” e “paternalistiche per avallare le loro tesi sconclusionate: “lo Stato deve funzionare come un buon padre di famiglia, facendo quadrare i conti ed equilibrando perfettamente le entrate con le uscite”. Ora sappiamo già che un vero Stato, capace di avere autonomia decisionale nelle scelte di politica economica e monetaria, non può mai essere paragonato ad una singola famiglia, in primo luogo perché al contrario di uno Stato Sovranoquest’ultima non può emettere mezzi monetari per ripianare i propri debiti, e in secondo luogo perché gli ambiti di competenza di uno Stato spaziano in un campo enormemente più vasto di quello di una famiglia o di una singola azienda (sanità, previdenza, assistenza, istruzione, tutela dell’ambiente e del patrimonio pubblico, amministrazione della giustizia, sicurezza, difesa dei diritti costituzionali, rapporti internazionali).
Per capire meglio quest’ultimo punto, basta confrontare il flusso dei redditi e delle spese di una famiglia di operai con quella di uno Stato, per evidenziare quante poche interconnessioni e interdipendenze esistano nel primo caso se paragonato con il secondo. Il capo famiglia riceve lo stipendio da un’azienda e spende poi i soldi in un mercato in cui i prodotti della sua azienda hanno spesso un peso marginale o del tutto irrilevante (l’operaio non è obbligato a comprare i prodotti che fabbrica per ricevere lo stipendio o per non fare fallire l’azienda in cui lavora). Le scelte di spesa della famiglia non influenzano per nulla la continuità di reddito, perché i due flussi si muovono in contesti completamente differenti. La spesa e la tassazione (le uscite e le entrate pubbliche) dello Stato vengono invece rivolte nel medesimo spazio collettivo: la spesa per servizi, stipendi, investimenti, viene fatta per i cittadini e i prelievi fiscali vengono fatti a carico dei cittadini. Qualunque spostamento nell’uno o nell’altro senso sposta quindi gli equilibri all’interno della cittadinanza, con effetti moltiplicativi e redistributivi che ormai sono ben noti anche ai non addetti ai lavori. Quando uno Stato taglia la spesa pubblica, ciò statisticamentecomporterà una flessione della domanda aggregata e del reddito nazionale, con conseguente riduzione delle entrate fiscali dello Stato. Non appena invece lo Stato impone una nuova tassa, questa avrà un impatto negativo sui consumi e sul reddito, finendo spesso per ridurre di una quantità maggiore le entrate dell’erario sia in termini diretti che indiretti e avvantaggiando certe classi sociali a discapito di altre, in base alla progressività e allacalibrazione della tassa stessa. In definitiva, tanto è facile condurre una famiglia (si fa per dire, soprattutto di questi tempi), quanto è complicato governare uno Stato.

Se dovessimo invece affidarci al puro tecnicismo economico, saremmo addirittura costretti ad escludere qualunque opzione redistributiva e sociale dall’orizzonte delle scelte  del decisore pubblico perché secondo laPareto-efficienza non si può migliorare in assoluto l’allocazione delle risorse quando ciò comporta un peggioramento di condizione anche solo di un individuo: detto in altre parole, non potremmo fornire un sussidio sociale ai più poveri se ciò implica un aumento di tassazione per un ricco. La tecnica economica insomma si concentra molto sull’aumento di efficienza del sistema e di creazione di ricchezza in generale (il PIL) ma è assolutamente disinteressata a ciò che avviene all’interno del sistema, in termini di redistribuzione, equità, giustizia. Definendo furbescamente questo “disinteresse” come neutralità scientifica, la quale a sua volta viene rivendicata sulla base della solita ricostruzione ideale e favolistica della storia inventata dagli economisti: in un lontano, arcadico passato eravamo tutti uguali e i poveri sono diventati tali perché non hanno saputo sfruttare bene le opportunità concesse dal libero mercato, mentre tutte le questioni legate alle posizioni dominanti, ai diversi rapporti di forza fra classi storicamente agiate e categorie sfruttate sono solo dettagli, su cui un vero studioso di economia non può e non deve soffermarsi. In questo senso ogni intenzione redistributiva dello Stato diventa deleteria e passibile di inquinare la perfetta efficienza allocativa del mercato, perché quest’ultimo sa fare già in modo automatico e ottimale ciò che lo Stato vorrebbe fare per decreto. Capite bene che una tale visione surreale e semplicistica della storia si scontra innanzitutto con il buon senso, e in secondo luogo con i dati empirici, che hanno dimostrato a più riprese che il mercato non può essere considerato una grandezza o un luogo ideale neutro al pari di un campo vettoriale, un piano cartesiano, uno spazio multidimensionale, perché se in questi ultimi si muovono numeri insensibili e imperturbabili, nel mercato interagiscono invece uomini e questi oltre ad avere passioni, vizi, virtù, assumono spesso un peso, una forza e una capacità di spesa superiori non tanto per loro abilità o per scelta ma per fortunacoercizioneraggiro necessità.

Queste difficoltà e anomalie i nostri politici, almeno per sommi capi, li conoscono bene, tuttavia siccome da tempo non si occupano più di politica e governo della nazione per il bene della collettività, ma fanno soltanto saccheggio feroce delle ricchezze pubbliche e private del paese per conto di una minoranza di cui essi stessi fanno parte, ecco che il teatrino della politica viene utilizzato con buoni frutti per coprire le loro reali intenzioni e in mancanza di una critica efficace può continuare indisturbato ininterrottamente. E così in Italia si discute da anni delle risibili beghe sessuali e giudiziarie di un vecchio impotente, delle ingarbugliate trame di palazzo e di partito di inqualificabili gruppi dirigenti imprenditoriali e politici, di questioni sociali e civili importanti in un paese economicamente e culturalmente evoluto (femminicidio, omofobia, diritto vita, ius soli) ma devastanti di fronte alla prospettiva di un paese a pezzi, senza più uno stato sociale degno di questo nome, i servizi pubblici allo sbando, la svendita e lo smantellamento del tessuto produttivo, i diritti costituzionali quali il lavoro, la dignità e il giusto reddito calpestati giornalmente. Con i partiti cosiddetti di “centrodestra” e “centrosinistra” che, in mezzo alla furibonda espropriazione del nostro futuro e dei fondamenti della democrazia, si sono specializzati in un preciso settore di aggressione: il centrodestra vuole derubarci con il taglio della spesa pubblica, il centrosinistra con l’aumento delle tasse. Ma entrambi gli schieramenti hanno infine lo stesso obiettivo: il depotenziamento del ruolo dello Stato nelle scelte di carattere politico ed economico e la riduzione dell’intero paese a protettorato o colonia delle ricche nazioni del nord, prendendo a pretesto il rispetto dei vincoli europei di bilancio e degli accordi intergovernativi capestro (vedi Fiscal Compact e Mes) che prima firmano e poi rinnegano.
Sembra un controsenso che i politici si affannino per contare sempre meno in politica, ma in effetti i benefici personali che guadagnano dalla sudditanza di fronte ai poteri forti sono di gran lunga superiori rispetto a quelli ottenuti da un’onesta militanza per la difesa del proprio popolo. Secondo voi un politico guadagna di più quando lotta per garantire il diritto pubblico allo studio o alla salute dei propri concittadini, o quando aiuta le lobbies del gioco d’azzardo ad evadere le tasse? Ha più vantaggi ad assumersi la responsabilità di governo di un paese complesso come l’Italia oppure a lasciarsi telecomandare da enti sovranazionali privatistici che oltre ad avere potenzialità finanziarie illimitate sanno già benissimo cosa fare della nostra nazione? Fate un po’ i conti e il risultato questa volta è presto ottenuto. I politici ormai fanno a gara per dimostrare fedeltà al più forte di turno e per manifestare in ogni occasione disponibile religiosa devozione ai fallimentari dogmi economici, quali laconcorrenza imperfetta, il libero mercato che in sé non garantisce alcuna libertà ma favorisce laconcentrazione della ricchezza in poche mani, la competitività senza confine che mette uno contro l’altro i lavoratori di paesi diversi in una folle corsa al ribasso, l’autonomia e l’indipendenza della banca centrale, che ha privato i decisori pubblici della leva monetaria ed eliminato a monte il necessario coordinamento fra politica monetaria e fiscale, la moneta unica, che non consente alcun tipo di aggiustamento attraverso la flessibilità dei tassi di cambio e scarica tutti gli oneri sui salari dei lavoratori. Una vera e propria camicia di forza che ha prevedibilmente portato nel baratro il nostro paese, con punte di disoccupazione giovanile del 40% e la caduta a picco del reddito nazionale.

E quando qualcuno viene gettato a mare con una camicia di forza, il primo pensiero da cui viene assillato è liberarsi dalla camicia di forza, mentre tutto il resto diventa ben presto secondario, inutile, trascurabile. Bisogna quindi riprendersi lo spazio di manovra politica, attraverso la cancellazione di ogni incomprensibile e inefficace vincolo di natura economica e finanziaria. E non sarà facile visto che i cialtroni che siedono in parlamento e nei ministeri sarebbero pure disposti a morire (o meglio a farci morire) pur di difendere ad oltranza quei vincoli, e per decretare il definitivo primato dei fragili assunti economici tanto propagandati da insospettabili esperti della prima ora, lautamente finanziati dai soliti poteri forti, sui principi costituzionali universali quali la giustizia e l’equità sociale, la solidarietà, la libertà d’impresa e di opinione, la dignità, il decoro, la cultural’emancipazione dalla miseria. Tanto per fare un esempio, l’apprendista stregone Enrico Letta, tanto nipote di tanto zio, scrisse già nel lontano 1997 un breve libretto dal titolo emblematico, che doveva essere un preciso segnale a chi di dovere per facilitare la sua ascesa politica e offrire i suoi umili servigi alla causa degli oligarchi: “Euro sì. Morire per Maastricht”.

Pensate un po’, quest’ameba travestita da politicante sarebbe disposto a morire per difendere il pareggio di bilancio, il tasso di inflazione al 2%, il limite del debito pubblico al 60%, l’apertura incontrollata agli scambi commerciali e finanziari internazionali, le privatizzazioni selvagge, per dimostrare che 2 più 2 fa 5. Perché da che mondo è mondo, e fino a prova contraria, tutti i modelli economici rigidi si sono sempre rivelati transitori e instabili, mentre ben altra cosa sono quei monolitici principi etici universali, impressi a fuoco e a sangue nellaCostituzione, che invece di scomparire, come insistentemente vorrebbero alcune élite di potere, si corroborano nel tempo a qualunque latitudine. Diffidate quindi da tutti coloro che vi invitano a non inquinare il dibattito economico con questioni morali, perché ogni scelta economica, soprattutto quando diventa irreversibile e immutabile, nasconde un preciso indirizzo politico e ogni indirizzo politico ha in sé una sua morale. Lasciare solo agli economisti di professione dibattere di economia, equivale a consentire soltanto ai biologi di parlare di Vita. Una cosa è il tecnicismo, altra cosa sono i principi che vanno oltre la tecnica e rappresentano l’ossatura portante di un individuo e di una nazione. E concludo con una riflessione ampiamente strumentalizzata e fraintesa del più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes:
Ma questo lungo periodo è una guida ingannatrice negli affari correnti. Nel lungo periodo siamo tutti morti. Gli economisti si attribuiscono un compito troppo facile e troppo inutile, se, in momenti tempestosi, possono dirci soltanto che, quando l’uragano sarà lontano, l’oceano tornerà tranquillo”.
Questa frase ha suscitato una ridda di interpretazioni, che hanno grossolanamente confinato il pensiero del grande economista in un arco temporale molto ristretto e all’interno di un significato ancora più riduttivo: “siccome nel lungo periodo saremo tutti morti, fregatevene del futuro e concentratevi sul presente, facendo tutto ciò che è necessario per stare bene noi, adesso. Spesa pubblica a deficit, piena occupazione, politiche inflazionistiche. Per nostra fortuna le eventuali conseguenze delle nostre attuali scelte sbagliate dovranno sobbarcarsele le future generazioni, perché tanto a quel punto noi non ci saremo più, saremo morti”. E invece, inserendo questa frase in una chiave di lettura molto più ampia, risulta chiaramente che Keynes volesse dire tutto il contrario: “vivete responsabilmente il presente, perché il futuro è una somma di tanti brevi periodi, e se continuate a fare scelte sbagliate oggi non potete sperare che arrivi come per magia un futuro luminoso di benessere per tutti, confidando in un’ipotetica e indimostrabile stabilità dei mercati che prima o dopo tendono sempre all’equilibrio. Se la situazione è instabile e squilibrata oggi, e nessuno fa niente per aggiustarla, lo sarà anche domani, e dopodomani, e fra un anno, e fra un secolo”. Keynes si dimostrò un buon profeta e non è un mistero che lui stesso, che era un economista, credesse nel primato della politica, dell’etica sull’economia, e relegasse il ruolo degli economisti a quello di semplici dentisti, capaci di darti la cura giusta al momento giusto, e poco più.

Commenta su Facebook