Gerardo Gaita
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
Da un punto di vista morale la costituzione italiana ha un inizio che può essere considerato per alcuni suggestivo – viene collocato il lavoro a fondamento ultimo di tutta l’architettura costituzionale.
Tuttavia, da un punto di vista economico e quindi scientifico siamo di fronte ad una presa di posizione che pretende di mettere il carro davanti ai buoi: allorché si è deciso di porre il lavoro come fondamento ultimo della Repubblica italiana si è, infatti, implicitamente messo a caposaldo delle relazioni economiche del paese la fallace teoria del valore-lavoro.
La teoria del valore-lavoro si basa sull’idea che sia il lavoro a determinare direttamente o indirettamente il valore di un bene o servizio prodotto.
Su questa teoria avanzata da pensatori economici neoclassici, Karl Marx ci costruirà in seguito il suo rivoluzionario messaggio politico: se è il lavoro l’unico elemento della realtà in grado di spiegare i prezzi di mercato, allora non può esistere un surplus/profitto percentuale di cui si possano legittimamente appropriare i fornitori di capitale.
Tuttavia, sia il lavoro che il capitale non sono altro che due fattori della produzione e i fattori della produzione, come dice l’espressione stessa, non sono entità abilitate a creare valore, bensì soltanto a produrre beni e servizi.
I fattori della produzione, combinandosi tra di loro, generano beni o servizi, ma il valore discende dall’insieme delle valutazioni soggettive che gli agenti economici fanno circa l’utilità di quel determinato bene o servizio relazionandosi allo stato dell’offerta di quello stesso bene o servizio.
Di conseguenza, il valore è un qualcosa di esogeno rispetto ai fattori di produzione impiegati, qualcosa che viene imputato dagli agenti economici e il prezzo è il modo attraverso il quale quel valore viene codificato.
L’imputazione del valore è un atto individuale e collega l’attuale scala di valori della persona, suscettibile di essere rivista in qualsiasi istante, agli oggetti di una realtà anch’essa in continuo cambiamento.
Sostenere quindi che qualcosa possiede valore intrinseco è come affermare che qualcosa è immune dalle valorizzazioni degli individui e dalle mutevoli condizioni della domanda e dell’offerta, ma niente, in economia, gode di questa capacità nemmeno un bene di prima necessità come l’acqua.
Un bene di prima necessità come l’acqua presenta, a variazioni del suo prezzo, variazioni della sua domanda meno che proporzionali e per questo viene definito come un bene avente una domanda inelastica, ma nessun bene o servizio è comunque totalmente inelastico perché ciò significherebbe affermare che qualsiasi quantità domandata è completamente indipendente dal suo prezzo e i prezzi sono una codificazione del valore.
Le proprietà pertanto sono intrinseche, ma il valore no.
Nel mercato, i profitti dell’imprenditore e il salario dei lavoratori, nel loro complesso, dipendono conseguentemente dalle decisioni dei consumatori – ecco perché si dice che il consumatore è sovrano.
Gli imprenditori poi possono legittimamente far propri dei profitti per quei prodotti-stadi intermedi di loro proprietà i cui servizi hanno ceduto alla produzione – la proprietà su questi prodotti-stadi intermedi, i cosiddetti beni di capitale, rappresenta un titolo legittimo da far valere all’interno del mercato del lavoro – mentre i lavoratori ricevono legittimamente un salario per aver ceduto alla produzione la loro forza produttiva.
Se il lavoro fosse generatore di valore, basterebbe che lo Stato assegnasse un’occupazione a tutti e avremo risolto ogni nostro problema economico.
Infondo, lo Stato attraverso i suoi decreti e abusando della sua autorità legale potrebbe creare tutta l’occupazione che vuole.
Tuttavia, ciò causerebbe in finale due cose:
da un lato, l’annichilimento della libertà individuale di scelta, giacché avremo individui obbligati a fare qualunque lavoro sia assegnato loro dallo Stato, in sostanza non più quindi lavoratori, bensì schiavi alla mercé del più assoluto monopolista mai concepito – una società in cui tutti lavorano non è pertanto una società necessariamente libera;
dall’altro, una straordinaria caduta del tenore di vita complessivo dovuta alla mancanza totale o pressoché totale di quel libero processo di mobilitazione delle risorse e delle conoscenze – ricordiamo che il problema economico delle società consiste principalmente nel rapido adattamento ai cambiamenti che intervengono nelle particolari circostanze di tempo e di luogo e che questo problema può essere affrontato al meglio mediante il decentramento decisionale e non tramite mandati coattivi.
Fondando idealmente una comunità in maniera esclusiva sul lavoro, si finisce per dare credito ad una presunzione di carattere morale priva di verità intellettuale: il problema a monte, infatti, non concerne l’occupazione, ma quello di assicurare la migliore contribuzione possibile al processo di creazione della ricchezza.
In economia, dare seguito sistematicamente ad una posizione inconciliabile con le leggi economiche universali significa concretamente caos oppure la cosiddetta legge della giungla oppure entrambe le cose, dato che il potere politico non può condizionare l’efficacia delle leggi economiche universali.
In conclusione, piuttosto che sul lavoro, una comunità dovrebbe avere il suo fondamento ultimo nella libertà di domandare e di offrire: la concorrenza sociale rappresenta, infatti, non solo l’unico sistema in grado di tendere a minimizzare il potere dell’uomo sull’uomo, ma anche quel processo che ci porta all’uso di maggiori capacità e conoscenze rispetto a qualsiasi altro … e non ci sarebbe neanche bisogno di scriverlo.