Di Marco Stugi
“Ci vuole molto a mettersi d’accordo per trovare una soluzione? Non riesco a capire una cosa, si parla di articolo 18, ma noi qui rischiamo di rimanere senza lavoro, questo è il dramma”.
(Operaio Alcoa di Portovesme in sciopero della fame)
Credo fosse il 1985, quando per la prima volta mi affacciai nel mercato del lavoro. Per chi come me, impiegato come cameriere, lavorava nel terziario, le opportunità di lavoro non mancavano: era sufficiente aprire le pagine del giornale per trovare un posto in un ristorante o in un bar di periferia.
Il posto fisso era il sogno di tutti e la mia professione era il rifugio degli “intellettualmente pigri”, in altre parole di chi non aveva voglia di studiare.
Se ben ricordo il primo stipendio, era di circa, 800/900 mila lire. Le mie prime buste paga risalgono a gennaio del 1995 per uno stipendio approssimativo di £ 1100.000. Si lavorava molto e si aveva anche l’opportunità di arrotondare la paga fuori dell’orario giornaliero con servizi extra pagati anche £100/ 150.000, una vera manna che riempiva le tasche.
Nel gennaio 2002 dopo un periodo di gestazione fiscale, entrò fisicamente in vigore la moneta unica e tutti i prezzi furono rivisti, cosi come il costo della vita.
Nei primi anni in cui mi affacciai nel mondo del lavoro, ricordo chiaramente quelle sensazioni di entusiasmo che mi accompagnava ogni mattina quando mi recavo sul posto d’impiego.
Giovane e pieno di speranze immaginavo la vacanza, il vestito, oppure l’auto che avrei potuto comprare grazie al mio stipendio. Il venerdì sera si andava a ballare al termine del lavoro. Ricordo che ero in grado di spendere circa £100.000 a serata tra entrata e consumazioni al banco bar, che spesso mi portavano a rientrare a casa non propriamente lucido (all’incirca corrispondeva a 6/7 consumazioni più entrata). La fine della notte brava era al cornettifico, che alle 4 le 5 del mattino sfornava i primi croissant caldi.
Nel 2002, anno d’introduzione fisica dell’euro, il mio stipendio in busta paga passò da £ 1800.000 circa a euro 930.
Intanto possiamo ricordare che in quell’anno la benzina costava £ 1954 (1,01 euro), un caffè al bar £ 1500 (euro 0,77), 500 g pasta Barilla £1000 (0,51 euro), adesso rispettivamente euro 1,92 (£3718) la benzina, 1 euro un caffè (£1900) e 0,75 la pasta (£1500).
Una persona che utilizza la macchina, facendo circa 1000 km il mese, per una media di 33 km il giorno, con un’automobile a benzina che consuma all’incirca 11 km per litro, nel 2001 spendeva 92 euro il mese (£ 180.000 circa), oggi euro 175 il mese (£329,166).
Oggi quindi, una persona si trova a spendere solo di carburante euro 2100 all’anno più assicurazione, bollo auto e manutenzione per una spesa che può arrivare anche a 4000 euro l’anno, da raddoppiare nel caso in cui in famiglia siano in due costretti a usare un mezzo. Calcolando che lo stipendio medio si aggira intorno ai 1300 euro, una famiglia perde tre salari annui, solo per il trasporto.
Questo è solo il capitolo trasporto, poi c’è tutto il resto, basta pensare al prezzo della pasta aumentato negli ultimi dieci anni di quasi 50 centesimi per Kg (£ 1000) o del banale caffè praticamente raddoppiato.
Adesso chi entra nel mercato del lavoro percepisce stipendi in media di 900 euro (£1742,643) a differenza degli anni in cui io (1990) entrando nel mercato del lavoro, guadagnavo circa £1100,000 (euro 568).
Seppur i salari sembrino in valore, essere raddoppiati, non hanno tenuto il confronto con il resto del mercato, a sua volta raddoppiato nel costo di tutti i suoi prodotti. Questo come ben sapete ha provocato l’attuale contrazione dei consumi. Per equiparare i salari al costo della vita sarebbe stato necessario per lo meno triplicare i salari.
La disoccupazione in Italia intanto è tornata al livello degli anni 2000, con un tasso di oltre il 9% con la fascia che va dai 15 ai 24 anni ad essere la più colpita (31,1%).
È chiaro che l’euro abbia ingannato tutti, dopo l’iniziale entusiasmo per una moneta che si prefiggeva di dare nuova forza all’economia europea, abbattendo le frontiere interne, facilitando gli scambi tra i paesi Europei e imponendola come moneta di scambio all’estero, in contrapposizione con lo strapotere del dollaro su tutti i mercati, la situazione è drasticamente peggiorata, creando sacche di povertà (come nel caso della Grecia) in Europa.
Il trattato di Maastricht con le sue rigide regole economiche, (deficit pari o inferiori al 3% del prodotto interno lordo), e il fiscal compact che impone il pareggio di bilancio in costituzione, stanno imbrigliando l’economia Europea colpendo in modo particolare il mercato del lavoro.
Molti hanno cercato di dare un’interpretazione alla logica di questi cambiamenti storici. La crisi dei mercati spesso è stata additata alle speculazioni finanziarie, come nel caso relativo al crollo delle borse americane del 2009 a cui fece seguito quello di tutte le borse Europee.
Nel 1996 l’Italia aveva un’eccedenza nel saldo della bilancia commerciale rispetto al P.I.L. del 3%, nel corso degli anni questa tendenza si è rapidamente ribaltata. Oggi le nostre esportazioni si sono in pratica azzerate, al pari della produzione industriale, in più abbiamo una pesante situazione debitoria.
I limiti imposti dall’Europa hanno costretto i nostri governi a innalzare la pressione fiscale pur di rimanere all’interno dei limiti (3%) concessi dal trattato di Maastricht. Ufficialmente in Italia la pressione fiscale è al 45% ma se consideriamo il sommerso (studio di Confcommercio) arriva al 55% la più alta d’Europa, scavalcando anche paesi come Svezia e Danimarca dove già lo era, anche se a differenza del nostro paese, è supportata dalla presenza di servizi funzionali.
La prima a pagarne le conseguenze è stata il comparto industriale che, visto la forte contrazione dei consumi, dovuta alla crescente pressione fiscale, ha visto diminuire la domanda, azzerando i consumi e finendo il più delle volte per chiudere bottega.
In questo quadro di crisi dei mercati, si è rinnovato nel tempo l’eterno contrasto tra lavoratori e imprenditori, i primi sempre più defraudati dei loro diritti e impoveriti dai loro sempre più miseri salari e i secondi chiusi nella morsa di una pressione fiscale insostenibile, che ha reso loro impossibile produrre a prezzi contenuti ed essere quindi competitivi.
Il risultato naturalmente è la crisi dei consumi che oggi si sta cercando di risolvere nel più classico dei modi: taglio della spesa sociale, nuovo aumento del carico fiscale e diminuzione dei diritti dei lavoratori. Il dibattito sull’art. 18 è l’emblema di una spenta diatriba che porterà unicamente a inasprire questo divario.
Finché non ci libereremo di questa dicotomia, dovuta certamente a dei modelli sbagliati, che vedono come unico mezzo di produzione la flessibilità, le imprese non torneranno mai a crescere.
Pressione fiscale e salari sono strettamente connessi: senza degli stipendi adeguati la gente non può spendere e quindi attivare il circuito economico, senza una corretta pressione fiscale non è possibile per le aziende produrre a prezzi ragionevoli, questa semplice riflessione dovrebbe bastare da sola per condurre alla ragione le due parti.
La produzione industriale in Italia è ampiamente in deficit, solo degli ipocriti banchieri di governo, come i nostri possono credere che l’abolizione parziale dell’art. 18 possa sbloccare il mercato.
Una volta grazie alla nostra moneta potevamo permetterci dei parametri di spesa più alta, i tassi d’interesse erano decisi dalla nostra banca centrale e non da quell’Europea che a sua volta attraverso l’acquisizione dei titoli di stato dei paesi dell’ unione monetaria, ha demandato i tassi alle banche private, libere finalmente di tenere sotto scacco cittadini e imprese, fino al momento ultimo in cui, schiacciate anche esse dai debiti non più recuperabili, finiranno per implodere.
Tornando a quei miei primi anni di lavoro dove grazie al mio stipendio, potevo alimentare la mia auto, entrare in discoteca, comprare cornetti alle 4 di mattina, vorrei ricordare che il tutto avveniva in un periodo (gli anni 1990) dove comunque il rapporto deficit P.I.L era già molto alto. Un giovane come me, era in grado di far girare l’economia in 4 settori diversi: trasporti, divertimento, ristorazione.
Adesso a malapena un giovane riesce a consumare una birra al pub, spesso si trova completamente a ridosso della famiglia, all’interno della quale è sempre più facile incontrare un elemento disoccupato o in cassa integrazione.
La nuova bozza della riforma del mercato del lavoro è stata varata. Nella sua parte introduttiva cita testualmente:
La riforma si propone di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità.
In attesa dell’approvazione finale e della sua stesura definitiva, la quale mi propongo di commentare in seguito, vorrei terminare con una semplice domanda.
La nuova riforma prevede il licenziamento per motivi oggettivi o economici. Questi andranno ricercati nella non più necessaria funzione del lavoratore, nell’espletamento di una sua mansione all’interno di un’azienda, dovuta a rinnovo, implemento tecnologico o riduzione per motivi di crisi.
Quest’azione in se, già discriminante, poiché implica la svalutazione della funzione dell’individuo, senza neanche considerare la sua eventuale riqualificazione in altro settore, rappresenta l’ultima frontiera della schiavizzazione del lavoro. D’ora in poi i datori di lavoro saranno liberi di decidere non solo quale periodo farci lavorare, ma soprattutto in quale caso possiamo essere utili.
In questo nuovo contesto, come farà il lavoratore a dimostrare in quale caso sia stata discriminante un azione nei suoi confronti?
Per un giovane che s’immette nel mercato del lavoro oggi, oltre alle difficoltà oggettive di trovare un impiego, sarà improbabile creare quell’entusiasmo che avevo io venti anni fa.
Le parole introduttive della nuova riforma del mercato del lavoro, suonano quindi vuote e pretestuose, pronte solamente a intrappolare ancor di più noi cittadini in un sistema discriminante, asfittico, vuoto, dove la nostra funzione è ridotta a mero ingranaggio, il più delle volte utile non per far funzionare una catena produttiva, bensì, unicamente per la riduzione di un costo, e soprattutto di un valore: “Quello umano”.