E ancor più paradossale è il fatto che, se la presidente dovesse essere destituita, ad assumere la presidenza del Brasile, almeno per 90 giorni, potrebbe non essere neppure l’attuale vicepresidente, ed ex alleato di Dilma, Michel Temer – contro cui è stata disposta l’apertura di un processo di impeachment identico a quello contro la presidente, avendo egli firmato, in quanto suo vice, gli stessi decreti di variazione di bilancio contestati – ma proprio Eduardo Cunha, colui che il Supremo Tribunale Federale ha deciso di processare per corruzione e riciclaggio di denaro (in seguito alla scoperta di conti segreti milionari nascosti in Svizzera e in altri paradisi fiscali), e sulla cui immunità parlamentare è chiamata a pronunciarsi la Commissione etica della Camera dei Deputati, a quanto pare senza molta fretta. Era stata, peraltro, proprio la denuncia per corruzione presentata contro di lui dalla Procura Generale della Repubblica a indurre Cunha a rompere la sua alleanza con la presidente, la quale si era resa colpevole ai suoi occhi di non aver tentato di bloccare le indagini. L’apertura del processo di impeachment è, insomma, il prezzo di questo suo “sgarbo”, cioè della decisione di non interferire in alcun modo nell’inchiesta Lava Jato, neppure per arginare l’evidente parzialità del giudice Sergio Moro (il quale, per inciso, si è ben guardato dall’indagare sulla cosiddetta Lista Odebrecht, l’elenco di donazioni di vari milioni di reais effettuate dalla grande impresa di costruzioni brasiliana a circa 300 politici, moltissimi dei quali dell’opposizione).
Che non di impeachment si tratti, ma di un vero colpo di Stato i movimenti sociali lo vanno in effetti ripetendo da mesi (da quando la richiesta di messa in stato di accusa è stata autorizzata dalla Camera lo scorso 2 dicembre): un golpe, è chiaro, di seconda generazione, di natura parlamentare anziché militare, del genere di quello verificatosi in Paraguay contro il presidente Fernando Lugo, destituito nel 2012 sulla base di un procedimento solo formalmente rispettoso della Costituzione, ma in realtà riconducibile ad un preciso disegno di destabilizzazione da parte dell’oligarchia. E che, a sua volta, non era che una riedizione più sofisticata e più furba del golpe che nel 2009 l’oligarchia honduregna (opportunamente spalleggiata dagli Stati Uniti) aveva realizzato, sì, con qualche sbavatura – come per esempio quella di permettere ai militari di prelevare il presidente Manuel Zelaya in pigiama, di notte, e di condurlo fuori dal Paese – ma in fondo dimostrando di averci visto giusto: dopo tanto protestare, i governi latinoamericani avevano finito infatti per riconoscere il governo di Porfirio Lobo, sorto dalla frode elettorale disposta dai golpisti, aprendo così la strada a successivi e, in base a ciò che sta accadendo, evidentemente fruttuosi tentativi golpisti.
In Brasile, tuttavia, ci vorrà ancora del tempo per la destituzione della presidente. Dopo la votazione del 17 aprile – giorno particolarmente infausto per il Paese, essendo quello della strage di senza terra a Eldorado dos Carajás, di cui si celebrava quest’anno il ventesimo anniversario – la discussione proseguirà ora al Senato, dove basterà la maggioranza assoluta (41 voti su 81), data per scontata, a decidere dell’ammissibilità del processo di impeachment. Dopo di che la presidente sarà allontanata dalla carica per un periodo di 180 giorni – durante il quale assumerà la presidenza ad interim il suo vice Michel Temer, accusato dalla stessa Dilma di trame golpiste – e giudicata dal Senato in un processo presieduto dal presidente del Supremo Tribunale Federale Ricardo Lewandowski. Se condannata (stavolta da una maggioranza dei due terzi), Dilma perderà la carica e Temer assumerà la presidenza fino alla conclusione dell’attuale mandato, nel 2018. Se poi anche Temer dovesse cadere, si procederebbe alla convocazione di nuove elezioni entro un periodo di 90 giorni, durante il quale il Paese sarebbe governato, per l’appunto, da Eduardo Cunha.
Nel frattempo, sono pronti a mobilitarsi in difesa della democrazia i movimenti popolari, riuniti nel Frente Brasil Popular e nel Frente Povo Sem Medo, i quali, pur rivolgendo critiche durissime alla dissennata deriva neoliberista del governo di Dilma Rousseff (v. Adista n. 12/16), denunciano il “golpe istituzionale” in atto, promosso da forze economiche e politiche decise a liquidare i diritti sociali del popolo brasiliano con l’aiuto dei grandi mezzi di comunicazione (a cominciare da quel «centro di propaganda ideologica golpista» che è la Rede Globo) e con «la copertura di un’operazione giuridico-poliziesca mirata a colpire, in maniera selettiva, solo determinati partiti e determinati dirigenti». E avvertono fin da subito che non riconosceranno in nessun modo la legittimità di un eventuale governo Temer, preparandosi a combatterne ogni singolo provvedimento teso a smantellare le conquiste dei lavoratori e a cancellare quel che di positivo, tra molti errori, hanno prodotto i governi del Partito dei Lavoratori.
* Immagine di Fabio Rodrigues Pozzebom/ABr, tratta dal sito WikiMedia Commons. Licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite
Fonte: www.adista.it