Lentamente negli ultimi anni, e a ritmo tamburellante negli ultimi mesi, i riflettori della cronaca nazionale sono accesi sempre di più sull’attività di lobbying. Spesso le ricostruzioni, le più svariate, confondendo tra attività differenti, e la stessa semantica della parola “lobby”, assumono un significato negativo. È indubbio, tuttavia, che il fenomeno stia assumendo una dimensione tale da esigere una qualche forma di regolamentazione. Una regolamentazione che permetterebbe, in prima cosa, di rendere trasparente l’attività di lobbying, e, inoltre, permetterebbe di avviare quel necessario percorso culturale (sul modello anglosassone) verso l’accettazione di una pratica comune a tutte le democrazie.
In Italia, le radici dell’attività di public affairs sono, inevitabilmente, deboli. Coincidono con la destrutturazione dei soggetti politici e la disintermediazione del sistema politico italiano. L’esistenza di grandi partiti di massa aveva impedito la nascita del lobbying professionale; i partiti, infatti, erano in grado, da soli, di rappresentare tutti gli interessi particolari della società. I partiti li interpretavano e in Parlamento si svolgeva la necessaria funzione di ricomposizione.
Oggi, non è più così. I partiti non sono più in grado di rappresentare la complessità del pluralismo sociale e i diversi interessi che da essa scaturiscono. Peraltro, non è solo il sistema dei partiti che ha perduto radicamento e rappresentanza. La disintermediazione è di “sistema” e ha colpito tutti i corpi intermedi, comprese le associazioni di categoria che svolgevano la funzione di raccordo tra gli interessi particolari e la politica. Un cambiamento, quindi, che coinvolge tutto il sistema della democrazia italiana, e, quindi, anche il rapporto tra portatori di interessi organizzati e la politica.
La crisi di rappresentanza dei corpi intermedi “tradizionali” ha reso necessaria una riorganizzazione dei legittimi interessi particolari dei diversi settori della società italiana. Ecco, quindi, che i lobbisti svolgono una funzione di supplenza, di rappresentanza di interessi, che necessariamente devono interagire con il decisore pubblico. È, peraltro, una necessità bidirezionale: poiché anche la politica, per comprendere al meglio gli interessi in gioco, ha la necessità di confrontarsi con attori competenti e credibili. Non sarebbe esagerato, allora, sostenere che i lobbisti hanno colmato un vuoto, un deficit di rappresentanza in una società articolata, complessa e plurale. Un vuoto che è stato necessario colmare con la crisi dei corpi intermedi iniziata con la fine degli Anni Ottanta.
Non è un caso che le prime società di lobbying nascano a metà degli Anni Novanta; come non è un caso che, oggi, una qualsiasi azienda modernamente organizzata si doti al suo interno di una sezione legata alle “relazioni istituzionali”, nelle diverse forme in cui può essere declinata. L’attività di lobbying sta diventando una componente essenziale della nostra democrazia, in una fase di profonda trasformazione dei meccanismi della rappresentanza degli interessi e del rapporto tra questi e la politica. Ed è, peraltro, un processo non solo irreversibile, ma che sta evolvendo, in questa direzione, con notevole velocità. Dunque, il Re è nudo. La pratica del lobbying è un fatto incontestabile, una realtà della nostra democrazia. Grande assente è la politica. Il legislatore, dopo innumerevoli tentativi, ancora non è riuscito a legiferare in materia; impedendo la formazione di un sistema trasparente e l’avvio di quella svolta, prima di tutto culturale, tanto attesa.
Filippo Andrea Errante, Relazioni esterne, comunicazione e fundraising – Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli