Con approssimazione possiamo affermare che una delle rivoluzioni che hanno generato le scoperte del polacco Niccolò Copernico fu la dicotomia tra scienza e religione. Infatti, sino ad allora vigeva l’idea che il creato fosse opera di dio. Che al centro dell’universo egli avesse collocato la terra, e che l’avesse popolata con l’uomo plasmato a sua immagine. Scienza e religione procedevano uniti quale opera divina. Prima delle scoperte di Copernico, e anche molto dopo, se qualcuno avanzava l’idea che la scienza fosse altra cosa si potevano avere dei guai. Galileo Galilei, pur essendo un cristiano convinto, ne seppe qualcosa.
Oggi tutti gli scienziati premettono che le loto tesi sono delle ipotesi. Si suole dire che l’elemento caratterizzante il discorso scientifico sia il fatto che esso – contrariamente ad altri tipi di discorsi più retorici o persuasivi o fideistici – garantisca un’obiettività, una ricerca della certezza. Si intende che la plausibilità ed anzi la veridicità del discorso scientifico sia garantita e dimostrata dal fatto che in esso l’ipotesi vada sempre comprovata per essere convalidata. Invece una tesi che, per la sua astrattezza e generalità, per principio non sia suscettibile di essere smentita (e nemmeno di essere comprovata) non può nemmeno essere ritenuta scientifica: essa sarà una tesi metafisica, il che non significa (come per i neopositivisti) “priva di senso” bensì più semplicemente e appunto “non scientifica”, ovvero una tesi che non può essere proposta come scientifica. Ad esempio se qualcuno dice che vi sono infiniti universi, o se dice che vi sono 181 universi, questa tesi (meta-fisica in quanto procede “oltre” l’esperienza) avrà sì un senso ma non sarà una tesi scientifica in quanto essa non potrà presumibilmente mai essere dimostrata né vera né falsa. In questo senso Karl Popper rivolge una famosa critica al marxismo e alla psicoanalisi respingendo la loro pretesa di scientificità appunto in quanto teorie che, potendo sempre essere “aggiustate” in modo da rendere conto dei fatti più contraddittori, non sono falsificabili. Con ciò appare chiara l’importanza della “prova” scientifica: se Galileo avesse avuto al suo tempo le prove inoppugnabili che cercava (e se fosse stato più accorto diplomatico), probabilmente l’accettazione del copernicanesimo sarebbe stata più semplice.
Nelle scienze sociali ed in politica le cose sono più… “sdrucciolevoli” e metafisiche. Difficile se non impossibile sostenere che una teoria politica è scientifica. Possiamo essere d’accordo sul fatto che esiste una plebe ed esistono delle èlite. La plebe è senza dubbio quella rappresentata (per esempio) dai tifosi, siano essi di calcio che di altro. A costoro appare difficile affidare le sorti del cosiddetto bene comune. D’altro canto se sono le élite che possono prefigurare il rinnovamento politico, non per questo siamo disposti ad accettare che un vecchio potere che ci soggiogava, sia sostituito dal un altro potere ugualmente schiavizzante.
Vilfredo Pareto (Economista e acuto osservatore della società) è tra i padri della sociologia moderna. La sua “teoria delle élite” rivela i meccanismi della corsa al potere politico ed economico. Che dice questa teoria, la cui nascita risale al secolo scorso ma la cui validità è stata dimostrata soprattutto e clamorosamente nel 1900? Per capirne meglio il meccanismo è indispensabile far precedere la risposta da un’occhiata alla situazione del nostro paese, una situazione che il lettore sta vivendo in diretta.
È proprio grazie all’occupazione delle élite partitocratiche che i vari popoli che abitano lo stivale stanno prendendo coscienza di sé e cominciano a pensare ed agire in funzione dell’indipendenza dallo Stato italiano. Questi popoli disseminati lungo la penisola hanno anime arabe, spagnole, germaniche, slave, venete oltre che italiche, e nello stesso tempo vivono una situazione confusa sia dal punto di vista intellettuale sia da quello politico. Pareto vede il sistema sociale come un sistema fisico-chimico nel quale le molecole sono rappresentate dai singoli umani con le loro particolarità che interagiscono al momento della “miscelazione sociale”.
Nel “Trattato di sociologia” (1916) Pareto scrive: “Un politicante è spinto a propugnare la teoria della ‘solidarietà’ dal desiderio di conseguire quattrini, onori, poteri […] È manifesto che se il politicante dicesse: ‘Credete a questa teoria perché ciò mi torna conto’, farebbe ridere e non persuaderebbe alcuno; egli deve dunque prendere le mosse da certi principi che possano essere accolti da chi l’ascolta […] Spesso chi vuoi persuadere altrui principia col persuadere se medesimo; e, anche se è mosso principalmente dal proprio tornaconto, finisce col credere di essere mosso dal desiderio del bene altrui”. Nel distinguere i fatti umani Vilfredo Pareto individua un nucleo costante costituito da manifestazioni di istinti, sentimenti, interessi che egli definisce “residuo”, e un nucleo variabile costituito da tentativi di giustificare razionalmente l’irrazionale, detto “derivazione”.
I popoli, sostiene Pareto sulla “Rivista italiana di sociologia” del luglio 1900, ad eccezione di brevi periodi di tempo, sono sempre guidati da un’aristocrazia, intendendo questo termine come indicativo dei più forti, dei più energici, dei più capaci sia nel positivo sia nel negativo. Ma per legge fisiologica le aristocrazie non reggono all’onda lunga e perciò la storia umana procede “mentre una gente sale e l’altra cala. Tale è il fenomeno reale, benché spesso a noi appaia sotto altra forma. La nuova aristocrazia, che vuole cacciare l’antica o anche solo essere partecipe dei poteri e degli onori di questa, non esprime schiettamente tale intendimento, ma si fa capo a tutti gli oppressi, dice di voler procacciare non il bene proprio ma quello dei più: e muove all’assalto non già in nome dei diritti di una ristretta classe, bensì in quello dei diritti di quasi tutti i cittadini”.
Allora, e concludendo, se le élite sono indispensabili al cambiamento socio-politico, sarà indispensabile trovare a priori una formula, una costruzione istituzionale che prefiguri la soluzione dell’antico quesito: Quis custodiet ipsos custodes? La locuzione latina tratta dalla VI Satira di Giovenale, che significa: «Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?». Per questo motivo dovremmo seguire e sostenere solo quelle élite che attraverso un foedus istituzionale concordato ed approvato anticipatamente, garantisca a tutti i cittadini una vita equa nella nuova comunità che si andrà a formare una volta sciolto il vincolo con il fatiscente Stato italiano.
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