Quarto capitolo del ciclo di approfondimenti introdotto dall’articolo «Sarà la globalizzazione a scatenare le nuove guerre etniche invece di impedirle» (IPN). Precedenti capitoli: 1. Che vuol dire “razza”? E cos’è davvero il razzismo? 2. Che cos’è un’etnia e come difendersi dagli autorazzisti. 3. Popolo e nazione: dall’unità morale alla comunità organica di destino.

Roma, 13 dic – Dopo aver chiarito di che cosa parliamo quando pronunciamo termini come razza, etnia, popolo e nazione, possiamo finalmente illustrare gli elementi identificanti del popolo italiano, tanto sul piano genetico quanto su quello etno-culturale. Come sappiamo fin troppo bene, infatti, le nostre (fraudolente) élites politico-culturali vanno ripetendo da anni che il «popolo italiano» altro non sarebbe che un «artificio», un’«invenzione» di nazionalisti ottocenteschi senza scrupoli. Salvo poi, ovviamente, richiamarvisi in periodo elettorale in quanto detentore della «sovranità», al fine di dar una parvenza di realtà alla rappresentatività «democratica». Di fatti, pare difficile parlare di «democrazia», ossia di «potere del popolo», se questo popolo… neanche esiste! Miracoli dell’ideologia globalista…

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Ad ogni modo, lasciate da parte queste miserevoli ciance da talk show di Formigli, possiamo ora chiederci: che cosa caratterizza e distingue il popolo italiano? Quando ha avuto origine? Che avvenire gli si prospetta? Intanto partiamo dai fatti. La penisola italiana era abitata nell’antichità da diverse genti, ossia da numerose etnie: popolazioni indoeuropee (Latini, Celti, Greci, Veneti, Osco-Umbri ecc.) e popolazioni neolitiche non indoeuropee (Liguri, Sardi, Etruschi ecc.). L’Italia è stata quindi già da tempi molto antichi una terra multietnica (ma non multirazziale, sia chiaro)[1]. Lo stesso nome «Italia» indicava in origine solo una piccola porzione del Meridione in cui erano stanziate alcune genti italiote, ossia magnogreche[2]. Solo in un periodo più tardo emerse il nome etnico (e giuridico) di Italici, con cui si intendevano le varie stirpi dell’Italia alleate di Roma. Vi erano dunque gli Italici, ma non un populus Italicus, poiché, anche quando tutte le popolazioni italiche furono politicamente e giuridicamente unificate nell’impero repubblicano, l’unico popolo – ossia l’unica entità genuinamente politica e non meramente etnica – era e rimase il populus Romanus. Il periodo di massima coesione di tutti i popoli italici si può quindi datare tra la concessione della cittadinanza romana anche alle ultime genti presenti sullo stivale, i Galli cisalpini (49 a.C.), e la riorganizzazione amministrativa dell’Italia in 11 regioni realizzata da Augusto al principio del I secolo d.C. (ne rimanevano però fuori Sardegna e Sicilia, che Diocleziano fece accorpare alla neonata diocesi italiciana nel 292 d.C.).

Di conseguenza, i popoli italici – pur essendo affini – erano geneticamente piuttosto differenziati. E purtuttavia questa bio-diversità – comune, del resto, ad altri popoli europei come ad esempio Francia e Germania[3] – si è mantenuta pressoché inalterata nei secoli avvenire: le invasioni allogene (germaniche, unne, saracene ecc.) e le dominazioni straniere (spagnoli, francesi, austriaci) non hanno lasciato tracce significative nel pool genetico delle popolazioni della Penisola[4]. Questo vuol dire che gli italiani di oggi sono – con leggere variazioni – i diretti discendenti dei diversi popoli che abitarono l’Italia antica. Cosa di per sé abbastanza scontata, a meno che non si voglia postulare che gli odierni italiani siano sbucati dal nulla. D’altronde, basta osservare i busti di Cicerone, Cesare, Pompeo e Augusto: sono volti che possiamo incontrare ogni giorno nella nostra quotidianità.

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popolo italianoMa, come già detto in un precedente contributo, i tratti genetici delle popolazioni – presi in sé – non sono mai l’elemento decisivo nei processi di etnogenesi. È altrove che dobbiamo guardare per capire veramente chi siamo e chi vogliamo essere. Ebbene, il processo che ha condotto all’unificazione degli Italici si fondò – anche prima della romanizzazione – su alcuni elementi culturali condivisi[5]. Ma soprattutto – evento veramente determinante – quest’identità si forgiò nelle guerre che Romani e alleati italici combatterono insieme e che fecero di Roma la potenza egemone nel Mediterraneo. Versando lo stesso sangue, vincendo e trionfando assieme, Romani e Italici suggellarono la loro unità politica e morale che, in età augustea, raggiunse il suo apogeo. Di certo si può parlare di un processo «incompiuto»[6], ma può forse qualche nazione, in tutto il mondo, vantare veramente un’unità granitica, un’identità perfetta e compiuta? Di questo è senz’altro lecito dubitare. In particolar modo se valutiamo il fatto che ogni popolo è vitale esattamente nella misura cui è una realtà in divenire, ossia una realtà che, divenendo, ha ancora davanti a sé un «da fare», e cioè può – concretamente – forgiare sé stesso nell’agone della storia e assurgere a nuovi stadi di civiltà. Dove c’è un processo, infatti, c’è sempre anche vita; dove è stasi, invece, è morte.

Ad ogni modo, fu esattamente l’antica coesione dell’Italia romana a mantenere vivo un sentimento di unità nazionale nelle popolazioni italiane lungo l’arco dei secoli caratterizzati da divisioni politiche e occupazioni straniere. Coscientemente o a livello latente, potentemente o debolmente – il ricordo dell’antica grandezza non venne mai meno. Per questo motivo la rinascita del sentimento nazionale italiano nell’Ottocento fu subito concepita come un «risorgimento», come un ridestarsi da un torpore durato troppo a lungo, come un riappropriarsi del proprio destino. Ha scritto in proposito un particolarmente lucido Antonio Gramsci: «Nel linguaggio storico-politico italiano è da notare tutta una serie di espressioni legate strettamente al modo tradizionale di concepire la storia della nazione e della cultura italiana, che è difficile e talvolta impossibile di tradurre nelle lingue straniere. […] Nasce nell’Ottocento il termine “Risorgimento” in senso più strettamente nazionale e politico, accompagnato dalle altre espressioni di “Riscossa nazionale” e “riscatto nazionale”: tutti esprimono il concetto del ritorno a uno stato di cose già esistito nel passato o di “ripresa” offensiva (“riscossa”) delle energie nazionali disperse intorno a un nucleo militante e concentrato, o di emancipazione da uno stato di servitù per ritornare alla primitiva autonomia (“riscatto”). Sono difficili da tradurre appunto perché strettamente legate alla tradizione letteraria-nazionale di una continuità essenziale della storia svoltasi nella penisola italiana, da Roma all’unità dello Stato moderno, per cui si concepisce la nazione italiana “nata” o “sorta” con Roma, si pensa che la cultura greco-romana sia “rinata”, la nazione sia “risorta”, ecc. La parola “riscossa” è del linguaggio militare francese, ma poi si è legata alla nozione di un organismo vivo che cade in letargia e si riscuote, sebbene non si possa negare che le è rimasto un po’ del primitivo senso militare»[7]. In queste parole emerge potentemente il concetto di richiamo a un passato glorioso, ma «perduto», in chiave di una sua attualizzazione, in forme rinnovate, nel presente.

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popolo italianoChe cosa era successo, però, nel lungo periodo (circa 1500 anni) che va dallo smembramento politico dell’Italia altomedievale sino all’epoca risorgimentale? Che cosa ha permesso a un sentimento nazionale – a lungo rimasto per lo più latente – di rinascere in maniera così possente e pervasiva? Tante cose, certamente, ma in particolare la Rivoluzione francese e il romanticismo. In questo torno di tempo, infatti, le masse irrompono prepotentemente nella storia, i popoli reclamano ora un ruolo politico da protagonisti: gli antichi Stati europei si trasformano gradualmente da Stati territoriali e dinastici in Stati nazionali. In altre parole, non è più il sovrano il centro politico delle nazioni, bensì il popolo. Per questo motivo i romantici – grazie a miti, leggende, letteratura, etnologia ecc. – tentano di «ricostruire» le origini e la storia dei vari popoli d’Europa. È questa, del resto, la grande domanda che ogni comunità politica autocosciente si è sempre posta dacché è entrata nella storia: da dove veniamo? Chi siamo? Chi vogliamo diventare?

Il problema, tuttavia, è che spesso tale storia fu concepita non solo come un mero dato di fatto, che quindi bastava semplicemente conoscere per essere membri effettivi del popolo, ma fu concepita anche come un dato di fatto univoco: esiste una e una sola «tradizione» italiana, francese, tedesca, ecc. Ovviamente non è così. La storia di un popolo è sempre caratterizzata da una tradizione ambigua e contraddittoria, o meglio da tradizioni in conflitto. E un popolo, per essere tale, deve sempre scegliere – in maniera creativa – una possibilità di esistenza tra le molte che hanno contraddistinto il suo passato. Questa possibilità di esistenza può essere prossima o remota nel tempo, ma deve comunque essere presente (ossia disponibile) allo spirito umano. In questo senso, riesumare dalle antiche saghe e dagli anfratti della coscienza dei popoli un’origine «autentica» (che cioè – etimologicamente – è «in noi») voleva dire in primo luogo risalire alle fonti della propria storia per contrapporsi così a un’epoca avvertita come decadente e, al contempo, per dar vita a una nuova origine di storia. Sia il concetto di «ritorno all’origine» che l’evidente ambiguità delle tradizioni nazionali hanno sempre mandato letteralmente fuori di senno le élites globaliste: per costoro, imbevuti di princìpi illuministici e pensiero debole, la storia è infatti una linea retta da cui non è possibile deragliare. Se la «globalizzazione» impone l’estinzione delle nazioni e dei popoli europei, così deve essere. Ce lo chiede il mercato, ce lo chiede il progresso, magari sono addirittura fumose «leggi della storia» a comandarlo. E poi: se non esiste una tradizione univoca, chiara e determinante, allora non ne esiste, o meglio non ne può esistere nessuna; se un popolo non è sempre stato pienamente cosciente di esserlo, allora non esiste alcun popolo, i popoli sono stati «inventati» in maniera fraudolenta dai romantici. Se da bambini voi non sapevate che un giorno sareste diventati ingegneri, è chiaro che voi non siete ingegneri affatto, ma siete solo delle «costruzioni sociali».

Messe da parte queste assurdità, possiamo tornare a noi: come si è formato e come si è concepito nella storia il popolo italiano? Come abbiamo visto, noi siamo gli eredi di popolazioni italiche dal passato plurimillenario che, sotto l’egida di Roma, hanno trovato la loro unità politica e morale. Lo sapeva bene anche Alphonse de Lamartine, il quale non sempre era stato tenero con gli italiani, ma che nel 1847 ebbe a scrivere: «L’Italia, benché devastata e asservita, è sempre rimasta italiana. […] Se essa non è più la regina delle nazioni, continua però ad essere la regina delle stirpi (races). […] I suoi abitanti sono i primogeniti d’Europa: nel portamento, nella voce e sulla fronte essi mantengono impresso il sigillo del loro diritto e la triste maestà della loro primogenitura»[8]. Ma Lamartine, pur nella sua retorica da poeta, sapeva al contempo che questa eredità non ha alcun valore se non viene assunta come materia viva e agente: «Monumento crollato, abitato solo dall’eco! / Polvere del passato, sollevata da un vento sterile / Terra, dove i figli non hanno più il sangue degli avi! / Dove su un suolo invecchiato gli uomini nascono vecchi; / Dove il ferro svilito colpisce soltanto nell’ombra […] / Addio! Piangi la tua caduta vantando i tuoi eroi! / Su rive ove la gloria ha rianimato le loro ossa, / Altrove vado a cercare (perdona, ombra romana!) / Uomini, e non polvere umana!»[9]. Severo ma giusto, il Lamartine, nel descrivere una nazione decaduta che tanto assomiglia all’Italia di oggi. Insomma, non basta rivendicare un passato glorioso se di questo passato non si sa esser degni. Anche per questo motivo in Italia il problema della nazionalità fu subito impostato come un problema «culturale»: il sostrato etnico, in sé, non è sufficiente, bisogna soprattutto essere eticamente consapevoli di essere italiani.

Nasce di qui la famosa tesi di Federico Chabod, il quale vedeva in Italia e Francia la nazione intesa in senso «volontaristico», mentre essa sarebbe stata concepita in Germania (da Herder in poi) in senso «naturalistico»[10]. Per italiani e francesi, in altri termini, sarebbe la volontà a determinare l’appartenenza nazionale, mentre per i tedeschi sarebbero sangue e suolo a fondare il Volk. Questa tesi è in buona parte vera ma, come ogni mezza verità, rischia di diventare menzogna. Sebbene lo stesso Chabod avvertisse che «non sempre l’opposizione è cosi totale e recisa»[11], nondimeno in molti, in troppi, si sono affrettati a distinguere una volontà che prescinde dalla natura da una natura impermeabile alle dinamiche storiche. Questo può essere vero ad esempio per il nazionalismo giacobino, che è sostanzialmente formalistico ed egualitarista: basta avere la cittadinanza per potersi dire francesi. Senonché i risultati nefasti di quest’approccio disincarnato (e tutto sommato ingenuo) sono emersi in tutta la loro chiarezza in seguito alla decolonizzazione: le plebi che affollano le banlieus transalpine, infatti, non sembrano proprio il miglior biglietto da visita per tessere le lodi della dottrina volontaristica francese, tanto che il «plebiscito di tutti i giorni» di Renan (formula peraltro molto bella) ha finito per trasformarsi in un rancore sordo e radicato nei confronti dei francesi autoctoni (i cosiddetti français de souche). Al contempo, inoltre, lo stesso approccio tedesco alla questione della nazionalità non appare sempre e comunque ancorato al Blut und Boden, o addirittura a quel razzismo volgare che vorrebbe fondare l’appartenenza nazionale unicamente sulla misurazione dei crani o sull’invenzione di fumose e immaginarie «razze spirituali». Anche in Germania infatti, e persino tra i teorici nazionalsocialisti più accorti, si fece sentire molto presto la necessità di un grande processo di pedagogia rivoluzionaria che fosse in grado di conferire una consapevolezza superiore al Volk biologicamente inteso.

Ad ogni modo, per il caso italiano si è sempre posto l’accento esclusivamente sugli elementi volontaristici della sua dottrina nazionale, molto spesso per dimostrare una presunta estraneità del fascismo (ottusamente liquidato come «razzista» e «nazionalista») alla tradizione patriottica italiana. È vero l’esatto contrario: il fascismo si configura proprio come l’evoluzione più consapevole delle teorie che furono elaborate dai massimi esponenti del Risorgimento. Di questo se ne è accorto – e ne ha fatto per così dire una battaglia personale, al fine di screditare con il fascismo anche il Risorgimento – Alberto Mario Banti, uno dei massimi esperti della materia[12]. Folgorato dalle tesi decostruzioniste, che egli incautamente presenta come acquisizioni scientifiche condivise, Banti ha mostrato con grande rigore come il discorso nazional-patriottico italiano sia sempre stato innervato da forti richiami all’idea di nazione intesa anche come comunità parentale. I legami di discendenza, i vincoli di sangue hanno cioè sempre svolto un ruolo rilevante tanto nella teoria filosofica quanto nella prassi governativa dell’Italia risorgimentale e poi fascista, tanto che Banti parla apertamente di una «concezione biopolitica della nazione»[13]. La dottrina italiana della nazionalità non si basa dunque solo su elementi volontaristici, ma si fonda anche su quei criteri cosiddetti ascrittivi, ossia naturali e quindi indipendenti dalla volontà umana. Questa concezione della nazione italiana, nei suoi elementi naturali e insieme culturali, è ben riassunta nei noti versi del Manzoni che in Marzo 1821 così descrive l’Italia: «Una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor». Sangue e cuore, corpo e spirito, natura e cultura: non c’è soluzione di continuità tra questi caratteri identificanti la nazione italiana.

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popolo italianoAd ogni modo, per descrivere il volontarismo italiano si citano spesso alcuni brani delle opere di Giuseppe Mazzini, il più autorevole rappresentante della dottrina nazionale italiana. Ma, come ha notato e illustrato anche Banti, sarebbe un errore equiparare la teoria mazziniana agli sproloqui autorazzisti della «presidenta» Boldrini. Mazzini infatti aveva in proposito idee abbastanza chiare: secondo il patriota genovese la nazione non è semplicemente un’«agglomerazione d’uomini parlanti lo stesso idioma», giacché «lingua, territorio, razza non sono che gli indizi della Nazionalità, mal fermi quando non sono collegati tutti e richiedenti a ogni modo conferma dalla tradizione storica, dal lungo sviluppo d’una vita collettiva contrassegnata dagli stessi caratteri»[14]. Questi elementi altro non sono – chiosava Giovanni Gentile – che la «materia della nazione, non la nazione»[15]. Lo spirito della nazione, come abbiamo detto altrove, è invece rappresentato dall’«unità morale» dei suoi membri. Per Mazzini, dunque, la nazionalità è strutturata sia su criteri ascrittivi (discendenza, lingua ecc.) che su elementi volontaristici (educazione, coscienza popolare e nazionale). Non molto diversa dalla concezione mazziniana è poi la dottrina fascista: «Di tutti coloro che dalla natura e dalla storia, etnicamente, traggono ragione di formare una nazione, avviati sopra la stessa linea di sviluppo e formazione spirituale, come una coscienza e una volontà sola. Non razza, né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da una idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità»[16]. Per Banti le tesi mussoliniane, che derivano da Mazzini, sarebbero «involute», mentre la formulazione gentiliana sarebbe «contorta»[17], giacché sia Mussolini che Gentile starebbero cercando di camuffare con artifici retorici la concezione fondamentalmente naturalistica della nazione fascista. Niente di sorprendente per chi è abituato a ragionare secondo schemi binari ed è dunque incapace di comprendere che la sintesi fascista si situa già oltre ogni naturalismo e ogni autorazzismo. Si tratta, d’altronde, di quella sintesi superiore che aveva afferrato già negli anni Cinquanta lo storico francese Henri Lemaître: il fascismo, diversamente dal nazionalismo conservatore, non vede affatto nella nazione una realtà immutabile, bensì un mito da realizzare, ossia «concepisce la nazione non essenzialmente come eredità di valori, ma piuttosto come un divenire di potenza»[18]. Divenire di potenza: questo è Italia.

Valerio Benedetti

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Note

[1] Cfr. G. Devoto, Gli antichi italici, Vallecchi, Firenze 19673; M. Pallottino, Genti e culture dell’Italia preromana, Jouvence, Roma 1981; Storia della prima Italia, Rusconi, Milano 1984; J. P. Mallory – D. Q. Adams, Encyclopedia of Indo-European Culture, Dearborn, London-Chicago 1997, pp. 314-319.

[2] Cfr. ora M. Humm, Le concept d’Italie: des premiers colons grecs à la réorganisation augustéenne, in A. Colombo – S. Pittia – M. T. Schettino (a cura di), Mémoires d’Italie. Identités, représentations, enjeux, New press, Como 2010, pp. 36-66; G. De Sensi Sestito, Italo, Italía, Italioti: alle origini di una nozione, in G. De Sensi Sestito – M. Petrusewicz (a cura di), Unità multiple. Centocinquant’anni? Unità? Italia?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 53-92.

[3] Pensiamo ai baschi, oggi divisi tra Francia meridionale e Spagna settentrionale, ossia a una popolazione neolitica, la quale si stanziò quindi in Europa in tempi molto remoti. I baschi, proprio come i sardi, rappresentano una stirpe preindoeuropea che contribuisce ad arricchire notevolmente la mappa genetica dell’Europa moderna. Ma pensiamo anche al fatto che persino nella Germania nazionalsocialista nessuno parlò mai di una «razza tedesca», proprio perché agli antropologi hitleriani era chiaro che anche la Germania è terra multietnica.

[4] Cfr. A. Piazza, L’eredità genetica dell’Italia antica, «Le Scienze», ottobre 1991; L. L. Cavalli-Sforza – P. Menozzi – A. Piazza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1997; M. Capocasa et al., Linguistic, Geographic and Genetic Isolation: A Collaborative Study of Italian Populations, «Journal of Anthropological Sciences», 92 (2014), pp. 201-231. A livello divulgativo si segnalano L. e F. Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Mondadori, Milano 1993, pp. 335-338; M. Hay, Storia genetica degli italiani, trad. it., «Genealogia Genetica», 10 novembre 2015, e, con importanti ricadute politiche, P. Sizzi, La realtà antro-genetica dell’Italia, «Ereticamente», 12 aprile 2015.

[5] Una buona sintesi divulgativa è offerta da M. Vigna, La teoria del pan-italianesimo, «Nuovo Monitore Napoletano», 6 marzo 2015.

[6] A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Laterza, Roma-Bari 1997.

[7] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 19752, vol. III, p. 2306.

[8] A. de Lamartine, in «Siècle», 31 ottobre 1847.

[9] A. de Lamartine, Le dernier chant, in Œuvres complètes, Chez l’Auteur, Paris 1860, vol. II, p. 102.

[10] Cfr. F. Chabod, L’idea di nazione, a cura di A. Saitta ed E. Sestan, Laterza, Roma-Bari 1979.

[11] Ivi, p. 68: «Due sono i modi di considerare la nazione: quello naturalistico, che fatalmente sbocca nel razzismo, e quello volontaristico. S’intende bene che non sempre l’opposizione è cosi totale e recisa: anche una dottrina a base naturalistica può apprezzare in certa misura i fattori volontaristici (educazione, ecc.), così come anche una dottrina a base volontaristica non è detto che debba rinnegare ogni e qualsiasi influsso dei fattori naturali (ambiente geografico, razza, ecc.). Ma insomma, è dall’accentuare più o meno fortemente l’uno o l’altro elemento che una dottrina riceve il suo particolare rilievo».

[12] Cfr. soprattutto A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011. Pubblicista presso Il manifesto, Banti ha acquisito una certa notorietà per la sua polemica contro Roberto Benigni in occasione dell’esibizione televisiva di quest’ultimo per la Rai, in cui il comico toscano si concesse un’improbabile «esegesi» dell’Inno di Mameli. Ho riassunto brevemente questa diatriba in V. Benedetti, «Roma, religione dell’anima»: Mazzini e le origini del fascismo, «Il Primato Nazionale», 10 marzo 2016.

[13] Cfr. su queste colonne la sintesi di G. Damiano, Ius sanguinis. Concetto di nazione nell’Italia dell’Ottocento, «Il Primato Nazionale», 26 ottobre 2015.

[14] G. Mazzini, Nazionalismo e Nazionalità (1871), in Scritti editi ed inediti = Edizione Nazionale, 106 voll., Galeati, Imola 1906-1943, vol. XCIII, pp. 83-96, qui pp. 92-93.

[15] G. Gentile, I profeti del Risorgimento italiano (1923), Sansoni, Firenze 19443, p. 24.

[16] B. Mussolini [e G. Gentile], La dottrina del fascismo (1932), in Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 44 voll., La Fenice, Firenze 1951-1963, poi Volpe, Roma 1978-1980, vol. XXXIV, pp. 115-138, qui p. 120.

[17] A. M. Banti, Sublime madre nostra, cit., pp. 153 e 160.

[18] H. Lemaître, Les fascismes dans l’histoire, E?d. du Cerf, Paris 1959, p. 25.
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