Mentre scrivo, Teheran è sotto attacco. Un gruppo di terroristi, pare quattro, ha assaltato la sede del Parlamento iraniano, sparando con fucili mitragliatori, il mausoleo di Khomeini e la fermata della metropolitana ad esso adiacente, queste ultime due azioni compiute da un kamikaze, pare una donna, fattasi esplodere fra i turisti. Una guardia armata del Parlamento risulta morta e si parla di sei feriti e ostaggi, tra cui alcuni deputati ma la situazione, ovviamente, appare nebulosa e in divenire. E non ci dice nulla di buono. A 48 ore dalla clamorosa decisione di sei Paesi, capitanati dall’Arabia Saudita, di rompere le relazioni con il Qatar per il suo supporto a gruppi terroristici, in testa Hamas, il caos ormai regna sovrano. Ed è arrivato a a colpire, come sembra, il cuore di quel mondo scita che Washington e Ryad hanno messo nel mirino. Nel silenzio generale dei media, impegnati con l’ennesimo squilibrato a Parigi, ieri l’Arabia Saudita ha formalizzato un ultimatum di 48 ore al Qatar, tempo che scadrà questa sera alle 9 ora italiana ed entro il quale Doha dovrà accettare dieci condizioni, la più importante delle quali è appunto chiudere per sempre i suoi contatti con Hamas e i Fratelli Musulmani.
Immediatamente il Kuwait si è proposto come mediatore nella disputa ma la situazione rischia di precipitare, oltretutto amplificata dall’eco di quanto sta accadendo a Teheran. Intervistato da Al Jazeera, Giorgio Cafiero della Gulf State Analytics, un’agenzia di consulenza sul rischio basata a Washington, si è così espresso: “Penso che il Kuwait e l’Oman temano la prospettiva che queste tensioni possano portare a un’escalation tale da minare gli interessi di tutti i sei membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Ci sono molti analisti che pensano che addirittura una frattura insanabile all’interno dello stesso Gruppo, oggi sia da considerarsi come un’ipotesi. Se queste nazioni non riescono a risolvere la questione e queste tensioni raggiungessero nuove vette, dobbiamo essere pronti alla possibilità che le sei nazioni arabe non riescano a restare unite sotto le insegne del Consiglio. Non è da escludere, a detta di qualcuno, anche un confronto a livello militare”.
Sono sincero, appena sono usciti i primi lanci di agenzia ho pensato a un false flag (mica solo americani e israeliani sanno farli) per prendere tempo e ossigeno dopo il blitz saudita-americano sul Qatar, il classico specchietto per le allodole. Poi, la dinamica ha cominciato a rendermi dubbioso sulla matrice interna: lo ammetto, al momento sono troppo pochi i particolari per esprimere un giudizio chiaro e netto, inutile lanciarsi in congettura teoriche. C’è dell’altro però che ci fa capire come la situazione stia potenzialmente sfuggendo di mano ai burattinai, visto che ancora ieri aerei della coalizione hanno bombardato milizie siriane fedeli ad Assad, di fatto fornendo copertura aerea ai ribelli moderati, ovvero Al-Nusra o ciò che ne resta. Ecco quanto ha twittato poco fa Alexei Puskhov, membro della Camera alta del Parlamento russo: “Gli Stati Uniti continuano a supportare i terroristi in Siria, La discussione sulla lotta contro Daesh è solo una distrazione, un diversivo. E’ cambiata l’amministrazione ma la politica no”. E che qualcosa si stia muovendo nell’ombra tra gli USA e l’Iran, lo dimostra l’ammassarsi di truppe filo-iraniane al confine tra Siria e Iraq, tanto che ieri Bloomberg scriveva chiaramente che “se Trump vuole un confronto con l’Iran, avrà presto un’occasione in Siria”.
Il Pentagono parla di “una ristretta unità di milizie pro-Assad” nell’area sotto controllo USA di Al Tanf ma subito dopo tradisce un po’ di nervosismo. Primo, quando ricorda che “l’assembramento di truppe è inaccettabile, minaccioso e aggressivo”, tanto più che l’area interessata “rientra nell’elenco di quelle de-confliction”. Ma come, non più tardi di una settimana fa, Washington continuava a negare l’utilità stessa di quelle aree cuscinetto, decise ad Astana da Russia, Turchia e Iran? Come mai ora ne rivendica lo status? Secondo, sempre il Pentagono ha detto chiaramente che “le forze armate USA sono pronte a difendersi, se le milizie pro-Assad si rifiuteranno di evacuare la zone di de-confliction”. Tutti gli analisti propendono per una dimostrazione di forza, da una parte e dall’altra, visto che al momento gli americani sono in grado di respingere tranquillamente l’attacco, a livello numerico e di armamento ma rimane il segnale inviato da Teheran. L’area interessata è di fatto il corridoio che l’Iran punta a trasformare in collegamento con il Libano. Un corridoio scita nel momento stesso in cui USA e Arabia Saudita hanno dichiarato guerra a quel mondo, in nome della lotta al terrorismo.
E mentre i media riportano la notizia in base alla quale tra i deputati all’interno del Parlamento iraniano sia esplosa la rabbia, tanto da aver cominciato a scandire ad alta voce “Morte all’America. Morte al suo servo, l’Arabia Saudita”, giova ricordare che solo l’altro giorno la russa Rosneft ha siglato un numero record di accordi con il Governo regionale curdo del Nord Iraq, ottenendo l’accesso al più grande sistema di trasporto della regione, qualcosa come 700mila barili al giorno, destinati a diventare 1 milione entro fine anno. Ammesso che entro quel lasso di tempo, una guerra in piena regola non arrivi a guastare i piani di Mosca, benedetti da Teheran.
Non stupisce,, in quest’ottica di provocazione, il fatto che ieri alcuni jet russi Su-27 abbiano intercettato un B-52 sopra il Mar Baltico, di fatto a 350 miglia da Mosca. Il Pentagono ha confermato la notizia, parlando di “missioni di routine” e anche la Difesa russa ha fatto trapelare di “non essere impressionata dall’accaduto” ma con le truppe NATO sempre più ammassate sui confini Est, basta poco per trasformare un incidente nella miccia di qualcosa di più.
E, tanto per darvi il quadro della situazione globale, parlando di “terrorismo” che casualmente appare e scompare ne posti più impensati e ameni, ecco che l’opposizione filippina al governo Duterte ha cominciato a lavorare all’agenda di provocazione del Dipartimento di Stato. Capitanati, guarda caso, dall’avvocato per i diritti civili, Edcel Lagman, i deputati avversi all’esecutivo di Manila hanno infatti presentato una petizione alla Corte Suprema con la quale definiscono “incostituzionale” la legge marziale promulgata nella provincia di Mindanao e ne chiedono la revoca “stante la mancanza di basi fattuali”. Il tutto, proprio mentre il fronte di Abu Sayaf e Maute è in piena offensiva contro obiettivi religiosi nell’area, decine le chiese date alle fiamme e l’esercito regolare sta cercando di stroncare l’insurrezione, prima che diventi endemica e si estenda ad aree limitrofe del Paese.
Duterte ha tenuto i nervi saldi dopo l’attentato farsa di Manila, l’ennesimo disturbato mentale tramutatosi di colpo in jihadista (magari dopo una chiacchierata in una delle basi USA che il presidente filippino vorrebbe chiudere) e ora il Deep State ha fretta, vuole la legge marziale ovunque e che la situazione con l’opinione pubblica precipiti. Ci vuole o un golpe che rovesci Duterte o una sua fuga all’estero: comunque sia, serve che se ne vada. Zio Sam non può fare a meno delle Filippine. E, come sembra, anche di una larga parte del resto del mondo. Stavolta, il reset geopolitico avrà un prezzo alto. Molto alto. Prepariamoci al peggio, sperando sia soltanto l’ennesima prova generale della versione 2.0 del “Dottor Stranamore”. Ma mentre sto per pubblicare, l’ultimo lancio di agenzia avverte che il governo tedesco ha appena approvato il ritiro delle sue truppe dalla base turca di Incirlik, ennesimo colpo alla tenuta interna alla NATO, dopo il quasi accordo tra Ankara e Mosca per la vendita di sistemi anti-missile S-400. L’avanzata curda su Raqqa spaventa Erdogan, così come l’ormai sfacciato atteggiamento del Deep State in seno all’alleanza. Prepariamoci, nel mirino ora vedo Libano, Macedonia e Ucraina.