(Gianluca Sgueo) Questo articolo approfondisce l’argomento della quantità e qualità delle regole che disciplinano l’attività lobbistica.
La quantità, per cominciare. Se prendiamo a parametro di riferimento il numero di norme dedicate alla disciplina delle interazioni tra i gruppi di pressione e i poteri pubblici troviamo un ampio spettro di ipotesi. Per semplicità, comunque, se ne possono isolare tre principali. Primo, la disciplina dell’esercizio della rappresentanza istituzionale è dettagliata. E’ quello che succede, in prevalenza, nei Paesi anglosassoni. Secondo, ci sono poche e semplici norme a presidio dei rapporti tra interessi e istituzioni. E’ il caso dell’Unione europea. In altri casi ancora, infine, non esistono norme dedicate espressamente alla interazione tra decisore pubblico e rappresentanti di interessi (è il caso italiano).
La quantità delle regole influisce sulla qualità di queste ultime, anche se non è determinante. Non è detto cioè che adottare tante leggi sulle lobby renda un servizio migliore in termini di rappresentanza e buon governo. Oltretutto, anche nei Paesi dove il numero di norme sul lobbying è ridotto, o assente, si creano meccanismi virtuosi della società civile per sopperire all’inerzia del Legislatore. Facciamo qualche esempio. L’Italiana Openpolis aggrega i dati presenti sui siti di Camera e Senato per diffondere informazioni sull’attività politica e legislativa del Parlamento. Regard Citoyens in Francia monitora l’attività del Parlamento e le relazioni con gli interessi dell’industria e della società civile. Negli Stati Uniti MapLight mostra la correlazione tra i finanziamenti ricevuti dai congressisti e le preferenze di voto espresse da costoro durante la legislatura. Legistorm invece tiene traccia e diffonde tutta la vita dei membri del Congresso statunitense, incluse le dichiarazioni ai media e le attività collaterali in cui sono coinvolti. Ne ricaviamo due riflessioni. Anzitutto, gli esempi appena riportati rivelano un elevato grado di attenzione da parte della società civile al tema dei rapporti tra politica e lobby. Ciò probabilmente anche a causa della frequenza con cui la stampa e i media più importanti fanno ricorso a questo concetto. Al tempo stesso, le iniziative della società civile per monitorare l’esercizio dell’attività lobbistica mostrano due debolezze. Ovvero: l’incapacità di certificare la propria trasparenza, non avendo formalmente alcun controllo da parte di organi terzi; inoltre, la difficoltà a garantire la costanza nelle proprie iniziative, a causa della scarsità di fondi e al lavoro prestato prevalentemente su base volontaristica.
Restano quindi una serie di problemi aperti. Il primo, e più importante, riguarda l’approccio da seguire nella disciplina delle lobby. Finora nessuna delle soluzioni sperimentate ha garantito buoni risultati. Gli scandali hanno interessato tanto i sistemi privi di regole, come quello italiano, quanto quelli più complessi, come quello statunitense. Di qui un secondo problema, relativo all’ampiezza del raggio di intervento delle leggi sulle lobby. E’ una questione di buon senso: una buona disciplina normativa dell’attività lobbistica deve guardare anzitutto al potere pubblico, introducendo norme più stringenti sulla trasparenza, e vincoli alle “porte girevoli” pubblico-privato.
Solo dopo vengono le norme per monitorare l’attività dei rappresentanti di interesse e tutti i problemi connessi (accesso alla professione, formazione, etica professionale, per dirle alcuni). Ad oggi però lo sguardo dei legislatori è stato miope. Attento più a porre limiti – peraltro spesso disattesi – all’esercizio della professione di lobbista, piuttosto che a salvaguardare l’integrità dei poteri pubblici.