di Elisabetta Gueli

Non puoi percorrere la Via prima di essere diventato la Via stessa.   Gautama Buddha  

http://www.lolandesevolante.net/blog/2011/09/05/ladakh-una-dimensione-dellanima/

Viaggiare in alcune parti dell’India, poche in verità, rispetto alla sua sconfinata estensione, mi ha insegnato che questo Paese dall’energia fortissima, nutriente e ristoratrice, chiarificatrice ed essenziale,  una volta attraversate le sue pianure sconfinate, i suoi fiumi estesi  come laghi, le sue montagne scabre od innevate,  è una dimensione dell’Anima, oltre che un luogo fisico. Dell’anima proteiforme di noi esseri multidimensionali, ricetrasmittenti d’infiniti messaggi cosmici ed ultracosmici, di noi alberi con le radici  saldamente piantate in terra, ma con le chiome rivolte al cielo, e con i corpi-tronchi intensamente impegnati nella difficile arte della costante trasformazione.

Decisi di regalarmi un intero mese in India il giorno in cui fui  libera dalla servitù del lavoro. Perché fu proprio il Ladakh a chiamarmi, è uno di quei misteri che soltanto il dipanarsi delle proprie giornate nel luogo magico dell’India riesce a svelare. Dove, se perdi la centratura e ti lasci distrarre dalle chiacchiere e dalle innumerevoli maya mondane, a volte, rischi anche la vita.

Dopo la dolcezza di Shrinagar la Bella, adagiata in pianura coi suoi laghi costellati di fiori di loto, il suo coprifuoco serale per la conflittualità col  Pakistan, i controlli dei militari, sempre sorridenti e bellissimi nelle loro uniformi  da carica dei Seicento, ed il suo tempio di Shiva-Lingam in cima ad un’alta collina, a cui si arriva a piedi nell’ultimo tratto, e si  perde  anche il senso spazio-temporale, di fronte al dispiegarsi a  trecentosessanta gradi dell’intero orizzonte cittadino, il Laddakh te lo devi conquistare su strade trafficatissime da camion, a volte in terra battuta, a volte dissestate dalla neve, strette e con tornanti a duemila metri, e sotto di te l’abisso. Poi arriva un passo di cinquemila e trecento metri in cui viene a mancare l’ossigeno, a te, piccolo occidentale poco aduso alle altitudini. Il silenzio e la luce sono essenziali, inesprimibili, primordiali. Tutto è intatto come millenni fa, e come sarà per i millenni prossimi. Puoi contemplare ghiacciai innevati scintillanti nell’implacabile sole, dissetarti ad un ruscello gelido e limpido di acque

cristalline, e nei pressi rinvenire una pietra a forma di cuore, pietra delle origini scolpita dai monsoni e rilasciata dai fianchi di montagne ocra, azzurre, grigie, marroni, rosse, violette, una diversa dall’altra, per forma e colore, che si allineano e si inseguono per chilometri e chilometri, alternate a pianure desertiche ed al sinuoso scorrere del fiume Indo. Qui ho visto coloro che definii “i dannati della terra”, e di certo, insieme ai  garimpeiros brasiliani, ai minatori delle miniere di diamanti africane, ed ai minatori del carbone di tutto il mondo, essi lo sono. Un centinaio di lavoratori di etnia Tamil, piccoli di statura, esili e scuri di pelle,  in una temperatura diurna di 30°-35° gradi, malgrado l’enorme sbalzo termico notturno, scioglievano il catrame per l’asfalto su grandi teglie di ferro al calore del carbone, e poi con le mani protette da improbabili stracci, lo  versavano sulla massicciata per asfaltare la strada. L’odore ed il calore erano insopportabili, le loro condizioni di lavoro ancor di più.

Ho visto e fotografato molti sorrisi di bimbi bellissimi, sempre allegri e giocherelloni, che ci guardavano come dèi scesi da un’astronave, e ci facevano sentire dissonanti per i nostri vestiti e la nostra agiatezza, ma  molto meno ricchi di allegria e vitalità. Bambini spuntavano dalle masserie isolate, povere case di agricoltori, ma sempre ravvivate dai colori del paese sul tetto, bianco, rosso, azzurro ed ocra,   e dalle bandierine di preghiera nel vento, sciamavano dai templi elaborati e magari ci chiedevano un passaggio in città, a Leh, la capitale, e noi offrivamo loro il pranzo e la Coca Cola, ripresi dal monaco più grande (avrà avuto vent’anni!),  come diseducatori internazionali. Questi bambini indossavano la veste rossa del lama, perché in un paese dalle risorse limitate e feudale nel suo ordinamento, divenire monaco in tenera età è la sola possibilità offerta per studiare. Poi, a cento chilometri da Leh, aggrappato su di un picco che guarda la valle ed il fiume coi suoi pioppi di un verde tenero, spunta improvviso il monastero di  Lama Yuru, in cui ci accolse un monaco con i Ray Ban e sneakers firmate ai piedi, che masticava chewing-gum, un giovane moderno! Un segno che i desideri umani illudono anche e soprattutto in questa parte di mondo,  oppure una mimetizzazione allo scopo di far sentire l’ospite a proprio agio? Secondo remote storie locali, pare che Lama Yuru fosse una donna che ad un certo punto resse il monastero per anni, cosa inconsueta nella loro cultura, in cui un monastero maschile deve essere governato da un uomo.

Ma osservando da una finestra di legno uno scorcio del paesaggio sottostante,  affioravano ricordi ed immagini di una vita precedente, ed anche dal canto mantrico  del monaco che ci portò in una stanza del monastero ricca di tankas e rotoli di  libri, ed innalzò una preghiera antica per noi. E se qualcuno ritiene che si tratti di mero déjà-vu, glielo lascio credere volentieri. Dormendo nella foresteria del monastero, al mattino persi il mio anello d’argento con l’OM.  Pensai: sarà un piacevole dono per chi lo trova… Nulla al mondo ci appartiene, tutto è in prestito temporaneo.

Un uomo in uniforme chiese un passaggio per gli ultimi cento chilometri che ci separavano da Leh, e si sedette accanto a me. Era un poliziotto musulmano, forse un vero viandante, forse inviato per spiarci…chissà.  La cosa è indifferente per chi non ha nulla da nascondere. Parlammo a lungo, di religione, del Corano, gli dissi che l’unica religione che sento è nel cuore, non nei libri, ed è la religione dell’Amore. Mi guardava con ammirazione e con occhi spalancati di sorpresa, forse mai aveva sfiorato tali argomenti con una donna, e per di più straniera. Prima di lasciarci mi domandò il mio nome, glielo dissi e gli chiesi perché volesse conoscerlo. Mi rispose: “Per ricordarti nelle mie  preghiere”. Allora anch’io volli conoscere il suo, e posso dichiarare che nelle mie meditazioni Mustafa ha soggiornato a lungo.

Ogni anno in agosto, in concomitanza col plenilunio, il Dalai Lama va  per una settimana da Dharamsala a Leh, nel Piccolo Tibet, e tiene una  serie di conferenze su un’enorme spianata all’estremità della città, cui affluiscono uomini e donne da tutto il paese, ed anche stranieri di passaggio. Le donne indossano i loro costumi tipici, ricchi di coralli dell’Himalaya e di turchesi molto grosse e semplicemente lavorate, e collane di perle di fiume. Sono bellissime, come le nostre donne sarde col vestito della festa. Per tre pomeriggi e sere ho assistito a queste conferenze, accolta in un lato del campo riservato ai turisti, in cui un interprete traduce in simultanea dal tibetano all’inglese i discorsi di Tenzin Gyatso, Oceano di Saggezza. Anche se non si dovrebbero mai fare confronti, perché ognuno ed ogni cosa è così com’è, non ho potuto fare a meno di paragonare questi discorsi del Dalai Lama alle adunate oceaniche in piazza San Pietro, a Roma, altro luogo di emozioni e devozione per molti. Da queste ultime ricevo  un’energia pesante e colpevolizzante, mentre il Dalai Lama elargiva con leggerezza i suoi insegnamenti di vita, colto e semplice, poliedrico e sempre allegro. Riusciva a creare un’atmosfera di gioia e benessere in ogni ascoltatore, che fosse pastore, contadino o mercante, e su  tutto una luna piena sorniona e benedicente che saliva nel cielo color lapislazzulo, festeggiata anche agli antipodi dai fratelli Lakota. I discorsi del Dalai Lama mi spinsero ad una riflessione: e se il volto amorfo e segreto del Divino fosse nella Gioia? E nella semplicità?

Ho trovato il divino in Ladakh negli occhi di molti e nella natura estrema, ed anche avidità, a volte, ed accettazione, semplicità, gioia.

Ho visto tutto tranne la povertà. Solo chi si sente povero è povero davvero.

Dal sito di Vincenzo Tessarin,  le  foto più belle del Ladakh
che sia possibile  reperire sul web.

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