Nel 1998, il Dipartimento di Stato americano stilò la classifica dei trenta gruppi più violenti ed estremisti del mondo: più della metà di questi si fondavano su basi religiose, e nello specifico si trattava di Musulmani, Ebrei e Buddisti.

La favoletta che vuole che i buddisti siano creature mansuete, perché così chiede la loro religione, è uno dei luoghi comuni più vecchi e usurati dell’Occidente, che tende a dimenticare come anche il Cristianesimo, giusto per fare un esempio, è stato alla base di violenze che hanno insanguinato mezzo mondo per almeno otto secoli. Ma solo per parlare degli ultimi vent’anni, i buddisti hanno combattuto ferocissime guerre contro altre religioni, o contro popolazione non schierata, in Thailandia, Burma, Corea, Giappone, India, Sri Lanka. Fanno eccezione i buddisti del Tibet?

La convinzione comune è che il Tibet fu, fino alla caduta del 1959 per mano della Cina, un regno basato sulla bontà, libero dall’egoismo tipicamente occidentale, senza corruzione, vizi e violenza: insomma, il paese dei balocchi, popolato da simpatici nanetti che passavano il giorno a pregare, a suonare il gong, e a cospargere il suolo di petali di rosa. A questa immagine hanno contribuito libri, film di Hollywood, e, non da ultimo, il Dalai Lama, che, testualmente, ha affermato che l’influenza del buddismo ha contribuito alla costruzione di una società dedita alla pace e all’armonia. Un modello di società alla quale il Tibet, così si dice, vorrebbe tornare.

In realtà, le cose sono decisamente diverse. Il Tibet prima della caduta assomigliava, piuttosto, all’Europa sconvolta dalle guerre fratricide seguite alla Controriforma del sedicesimo secolo. Cinque Dalai Lama hanno salutato il loro regno per la mano assassina di sacerdoti o di componenti della corte che li circondavano – e questo nonostante lo status divino che gli era unanimamente riconosciuto.

Nel 1792, a tutti i monasteri del Tibet fu imposta la particolare corrente dottrinale del Dalai Lama, chiamataGelug. La preghiera che innalzavano ogni mattina suonava più o meno così: “Ti preghiamo, dio violento, di ridurre in polvere tutti coloro – monaci o gente comune – che sporcano o corrompono la dottrina Gelug”.

Nel 1959, quando il Tibet cadde nelle mani dei Cinesi, questo paese era, di fatto, uno stato feudale, dove la maggior parte delle terre coltivabili era lavorata da servi della gleba, sotto il controllo o dei ricchi Signori, o dei ricchi Lama a capo della teocrazia: un paese medioevale, quindi, in mano a una casta di sacerdoti che non si facevano problemi a usare la forza per imporre il loro potere. I monaci vivevano in povertà, come i monaci del medioevo; il Dalai Lama, invece, e la sua corte, vivevano nel Potala Palace, una costruzione di 1000 stanze. L’idea che c’era in Occidente era che la gente lavorasse volontariamente per i monaci, per osservare le leggi del karma: in realtà, la casta sacerdotale disponeva di un vero e proprio esercito, con la quale opprimeva il popolo. I lavoratori non avevano alcun diritto; i proprietari terrieri potevano disporre dei loro servi in ogni modo – e le donne dovevano assecondare qualsiasi desiderio del loro signore. L’armamentario di cui disponevano i signori (Dalai Lama incluso) per far rispettare la propria volontà comprendeva manette di ogni tipo, strumenti per tagliare nasi e orecchie, strumenti per cavare gli occhi, strumenti per spezzare le mani e le gambe. Tutto questo, nel 1959, cioè 53 anni fa. E come in tutte le teocrazie che si rispettano, i bambini erano oggetto di violenze sessuali perpetrate dai monaci, che avevano fatto voto di castità.

Poi, è arrivata la Cina. La Cina è una dittatura dall’aspetto particolarmente brutto: ha commesso atrocità un po’ ovunque, sfrutta il popolo, condanna a morte. Non può essere difesa. Tuttavia, è bene sapere la reale entità di ciò che è stato commesso dai cinesi in Tibet, per capire quanto credito è giusto dare all’attuale Dalai Lama. Un fatto: il Dalai Lama afferma che la Cina, durante e dopo l’invasione del Tibet, ha ucciso 1.200.000 persone; ma nel 1953, sei anni prima dell’invasione, secondo il censo (tibetano) c’erano 1.240.000 persone. Il Tibet, nei primi anni sessanta, avrebbe dovuto essere uno sterminato cimitero – cosa che nessuno ha mai visto o affermato di aver visto. Un altro fatto: i Cinesi bloccarono qualsiasi attività di mutilazione perpetrata dai monaci nei confronti della popolazione.

Ciò non toglie che i Cinesi imposero una dittatura ferrea sul Tibet; in particolare, tra il 1966 e il 1976, sull’onda della Rivoluzione Culturale, la persecuzione contro i religiosi assunse forme terribili. Il passaggio forzato dalla servitù della gleba alla collettivizzazione produsse più danni che benefici. Tuttavia, già a partire dai primi anni ottanta, il pugno di ferro della Cina iniziò a sciogliersi: i monaci poterono tornare in Tibet e riaprire i monasteri, la religione venne tollerata – anche se è ancora vietato mostrare in pubblico una foto del Dalai Lama. Vennero imposte le leggi in vigore per il resto dei cinesi, con qualche vincolo in meno: ad esempio, il numero massimo di figli è tre (contro l’uno consentito, ad esempio, agli Han, una popolazione di madrelingua cinese che vive in Tibet), superati i quali non si ha più diritto all’assistenza sanitaria; assistenza che, per inciso, sotto il Tibet non esisteva.

E i Signori? Il Dalai Lama? Per loro il comunismo è stata una calamità ben più mite. Grazie alle sovvenzioni da parte della CIA (circa un milione e settecentomila dollari all’anno), hanno potuto abbandonare il loro Tibet, e ricostruirsi una vita altrove. Il Dalai Lama ha iniziato a parlare di diritti umani e di libertà religiosa – concetti sconosciuti in Tibet prima dell’avvento del comunismo – e di democrazia, e di costituzione: l’Occidente, evidentemente, deve avergli fatto bene.

Ma la visione politica di questa specie di papa rimane quantomeno confusa. Di sé, dice di essere metà marxista e metà buddista. Il marxismo, secondo lui, è fondato su principi morali, si prende cura dei lavoratori e del loro destino mentre il capitalismo pensa solo al guadagno e al profitto; tuttavia, si preoccupa di rassicurare chi vive nell’abbondanza: “E’ una cosa buona essere ricchi. Questi sono i frutti di buone azioni, la prova che [questi paesi] sono stati generosi nel passato”. E La sua morale assomiglia alla Rerum novarum che Papa Leone XIII promulgò nel 1891. Ecco cosa pensa il Dalai Lama della povertà: “Non ci sono buone ragioni per ribellarsi contro quelli che hanno ricchezza e fortuna. Meglio sviluppare un’attitudine positiva”. Non assomiglia alla condanna a una rassegnata povertà per tre quarti del mondo?

Il Dalai Lama promuove l’educazione delle donne – attività che in Tibet era sempre stata vietata sotto il dominio dei suoi predecessori, e che invece è sempre stata assicurata dalla dittatura cinese. Il suo parere sull’uso della forza per la risoluzione di controversie internazionali è abbastanza chiaro: sì all’intervento NATO in Iugoslavia, sì all’invasione dell’Afghanistan. Sull’Iraq, nel 2007 era ancora indeciso. Tra le altre cose, ha chiesto espressamente che Pinochet non venisse consegnato alla Spagna per essere processato per i suoi crimini (e d’altra parte, anche il nostro clero non ha mai preso le distanze dal sanguinario dittatore cileno, il quale, quando è morto, ha avuto un regolare funerale cattolico), e ha onorato del titolo “Eroe buddista per i diritti religiosi” il senatore repubblicano Jesse Helms, ora scomparso, che nella sua carriera ha detto no a qualsiasi legge sui diritti civili, diritti dei disabili, diritti degli omosessuali, diritti delle donne, aborto. Tutte le sue campagne elettorali, e i suoi interventi sui giornali, erano improntati al più bieco razzismo.

Una simpatica immagine di Wojtyla al balcone con Pinochet

Non ce l’ho con il Dalai Lama – non con lui personalmente – e non credo che la dittatura cinese in Tibet sia qualcosa di positivo. ma chi potrebbe considerare Ratzinger un’alternativa sensata a qualsiasi dittatura, qui in Occidente? Che credito avrebbe il pope di Russia in una sua possibile futura democratizzazione? Immaginate un Papa come presidente del Consiglio e, allo stesso tempo, presidente della Repubblica. Provate a pensare a come sarebbe la vita qui in Italia. E’ questo ciò che auguriamo al Tibet? Un ritorno al medioevo, al potere di una casta che si definisce casta e che invece abusa dei ragazzini?

Quello che mi fa arrabbiare è l’errore che l’Occidente continua a compiere ciclicamente. Da un lato, abbiamo le nazioni dominanti che perseguono ciecamente i proprio interessi – compresi quelli più beceri: ecco l’appoggio degli USA ai Talebani afgani contro i Russi nei primi anni ottanta (non mi stancherò mai di sottolineare che Rambo, nel terzo episodio, va a dare man forte proprio a loro, che nel film vengono tratteggiati come eroi della resistenza contro il crudele invasore), ecco l’appoggio degli USA a Saddam contro l’Iran, ecco l’appoggio degli USA ai vari Pinochet delle pseudo-repubbliche del Sud America. Dall’altro lato, invece, ecco l’idealismo ingenuo di chi sosteneva l’Ayatollah Komeini contro lo scià di Persia (un regnante fantoccio nelle mani degli Stati Uniti), per poi dover fare i conti con una delle più retrograde teocrazie degli ultimi cinquant’anni, ecco il supporto convinto a Fidel Castro, che si è poi rivelato un dittatore del genere un po’ più illuminato – ma pur sempre un dittatore -, ed ecco le festose accoglienze al Dalai Lama, quando arriva sugli arei pagati dalla CIA. La cosa bella è che, nel caso del Tibet, gli interessi economici dell’Occidente – infilare una spina appuntita proprio nel posteriore della Cina – si sono ben sposati con l’ingenua credulità di tutti quelli che pensano che buddismo sia necessariamente sinonimo di bontà.

Ma il buddismo, in Tibet, è stato il fondamento di una delle tante teocrazie che hanno schiacciato, schiacciano e schiacceranno le popolazioni di decine di paesi: anche i monaci non si sono sottratti alla regola che ogni volta che una casta di sacerdoti si impossessa del potere, iniziano i lutti per la povera gente. Gli strumenti per cavare gli occhi sono stati buttati via nel 1959, quando il Dalai Lama aveva 25 anni e si preparava a un futuro da re. Se ora il Dalai Lama è diverso, se non è buddista fino in fondo, lo dobbiamo ai suoi contatti con l’Occidente, che gli hanno fatto maturare alcune idee un pochino più tolleranti, e alla dittatura della Cina, che ha garantito istruzione, sanità, qualche diritto civile alla popolazione tibetana.

Ma allora, mi chiedo, nella lotta per l’indipendenza del Tibet, dobbiamo proprio puntare su una specie di papa buddista, al quale è riconosciuto lo status di divinità? Possibile che non ci sia davvero nulla di meglio?

 

(Per questo post, sono riconoscente a Micheal Parenti, e al suo lucidissimo articolo sul Tibet)

Fonte: http://grafemi.wordpress.com/2012/03/26/la-simpatica-favoletta-della-teocrazia-in-tibet/

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