Di Sherif El Sebaie

Si ricorderanno, i lettori, la mia rabbia per la presenza – a piazza Tahrir – di manipoli di cittadini stranieri residenti in Egitto che “empatizzavano” con i fighetti protagonisti della cosiddetta rivoluzione, nell’illusione che un paese come l’Egitto si sarebbe di colpo trasformato in una seconda Turchia.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: ci ritroviamo con istituzioni egemonizzate da forze radicali che scalpitano per imporre un modello chiuso socialmente e religiosamente (ma molto “aperto” economicamente) e con  casse vuote che spianano la strada ai prestiti del Fondo Monetario internazionale e al “mercato libero” prossimo venturo (che difficilmente porterà il benessere auspicato dagli idealisti scesi in piazza).
Pochi giorni fa è uscito in libreria un libro molto interessante, che racconta i retroscena di questa gigantesca montatura, messa in atto da un manipolo di invasati di Twitter, con il supporto di agenzie “non – governative” (sic), del megafono degli interessi geopolitici del Qatar (Aljazeera,, ndr) e di tutti quei blogger irresponsabili che hanno fatto il tifo nell’illusione che i salafiti fossero uno spauracchio ad uso e consumo dell’Occidente che gli egiziani non avrebbero mai preso sul serio.
Qui un estratto di Rivoluzioni S.p.A. – Chi ha suggerito la Primavera Araba di Alfredo Macchi, Ed. Alpinestudio, dal capitolo: “Il grande gioco del potere”, ripreso dal sito de “Il Fatto Quotidiano”

“Diverse fondazioni e organizzazioni private a Washington, a Belgrado e a Doha, hanno offerto assistenza agli attivisti. Alcuni di loro sono stati addestrati da associazioni dietro le quali si possono intravedere la CIA o altri servizi segreti. Quasi tutte le rivolte sono state precedute da un’intensa attività di blogging sul web e sui social network: un mondo virtuale, come abbiamo visto, dietro cui si può nascondere chiunque. Alcune insurrezioni hanno seguito lo schema tattico della non violenza, quello teorizzato da Gene Sharp, Robert Helvey e Peter Ackermanaltre sono degenerate in guerre civili. In quel caso le forze speciali inglesi, francesi e americane hanno addestrato e aiutato i ribelli, soldati e mercenari hanno combattuto sul campo, sostegno logistico e armamenti sono stati offerti dai servizi segreti di mezzo mondo.

[…] La Primavera Araba, preparata o meno che fosse, è stata per Washington l’occasione per sbarazzarsi di regimi legati in qualche modo alla vecchia concezione statalista e nazionalista dell’economia, eredità del socialismo sovietico in salsa araba. In ballo c’è, come avvenuto dopo la caduta del Muro di Berlino nell’est Europaun grande mercato dove fare largo alle imprese americane, finora osteggiate dal diffuso anti-americanismo islamico. «Le rivoluzioni democratiche in Tunisia, Egitto e Libia, e quelle ancora in corso in Siria e Yemen, sono imbevute di spirito imprenditoriale», ha detto il vicepresidente americano Joe Biden, parlando il 3 dicembre 2011 a Istanbul ad un convegno di imprenditori interessati a promuovere l’iniziativa privata nel mondo arabo. Sacrificare vecchi amici come Ben Alì, Mubarak, Saleh e tradizionali nemici, come Gheddafi e Assad, in nome del libero mercato, è una scelta obbligata per Washington”. 

Didascalia della vignetta: “Ora che abbiamo rovesciato con successo la struttura del potere del nostro paese, che succede?”
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