Cominciamo ab ovo. Gli Stati Uniti, nel loro ruolo di superpotenza planetaria, sono una bestia ferita. Solo pochi anni or sono, la musica era ben diversa: ostentavano sicumera e spavalderia, vittime della sbronza geopolitica brzezinskiana. Chi non ricorda Zbigniew Brzezinski? Praticamente, un Matteo Renzi al cubo: se il giovane capo del governo promette per marzo la riforma del lavoro, per aprile quella della giustizia, per maggio quella del fisco e per giugno pare voglia far lacrimare qualche madonna, lo stratega polacco-statunitense non era da meno. Vaticinava, il povero ottimista, in pochi anni la normalizzazione del Sudamerica, poi la presa del vicino oriente, poi la caduta di questo o quell’antagonista alla potenza a stelle e strisce, e infine l’atto risolutivo, quella conquista del cuore del continente eurasiatico che avrebbe finalmente condotto all’egemonia duratura sul pianeta, quello che altri avrebbero in seguito definito “nuovo secolo americano”.
Poi, la favola finì. Insidiata dalla potenza cinese, spiazzata dalla rinascita putiniana della Russia, impantanata nelle paludi afghano-irachene, sorpresa dal nuovo risorgimento chavista-peronista dell’America latina, la più formidabile talassocrazia della storia, rischiando di vedersi sottratto il “thalassa” su cui esercitare il proprio potere, dovette ricorrere (peraltro, facendo conto sulla miopia geopolitica che la contraddistingue) a piani di emergenza. Inizialmente con le millanterie militari etilico-neocon di Bush figlio, in seguito coi “remi in barca” del primo Obama, per finire col forte rilancio, negli ultimi anni, dell’ingerenza violenta negli affari interni di sovrani Stati esteri, delle “rivoluzioni colorate” all’occorrenza sospinte anche da un intervento militare più convenzionale.
Alcune di queste “rivoluzioni” riuscirono: in Jugoslavia, in Georgia, in Libia. Altre, fortunatamente per i popoli e le nazioni coinvolte, fallirono miseramente: in Venezuela, in Bielorussia, e in Iran, dove quell’ “Onda Verde” che avrebbe (dati Cnn) portato in piazza milioni di persiani si è dissolta nel nulla al punto che il suo nome, a distanza di pochi anni, rimanda solo alla trasmissione radiofonica delle notizie sul traffico. Altre volte il fallimento è stato tale da rischiare addirittura di compromettere il prestigio – se così si può dire – dei suoi promotori statunitensi in modo assai grave: in Siria, ad esempio, dove la vergognosa disfatta del settembre 2013 fece toccare a Washington il punto più basso della sua reputazione internazionale nella storia recente.
Ma la direttrice politica sembra ormai sciaguratamente tracciata, e la crisi ucraina di questi giorni si inserisce drammaticamente in questo tragico filone di eventi. Anzi, in questi fatidici accadimenti si percepisce ancor più il senso di sbandamento della potenza atlantica, il suo voler menare sconsiderati colpi di coda, il suo volersi spingere fino alle estremo rischio di portare di nuovo la guerra in Europa, a ridosso di quel limes russo che la separa dalla tanto agognata conquista del continente Eurasia.
La “firma” della sommossa di Kiev apparve subito in tutta la sua evidenza. Erede della precedente “rivoluzione arancione”, continua ad utilizzare il simbolo del pugno chiuso che ha contraddistinto le analoghe rivolte che, dall’ “Otpor” serba in avanti, hanno insanguinato ogni angolo del mondo in cui sono stati mobilitati i mercenari e gli utili idioti dell’atlantismo. Poi la benedizione ufficiale della Casa Bianca con tanto di visita di Stato del senatore Mc Cain agli esponenti dell’opposizione, per continuare con le sordide buffonate delle “femen” (sì, quelle che nella loro ultima esibizione live si sono pregiate dell’accompagnamento musicale della frusta cosacca) e per finire con le evidenti e schiaccianti prove di responsabilità degli Stati Uniti d’America nel foraggiamento, nel finanziamento miliardario e nell’aperto sostegno ai rivoltosi che hanno così potuto contare su enormi mezzi finanziari, armi e una pressoché unanime copertura mediatica.
Pur senza volersi cimentare nell’agone della partigianeria, pur volendo sorvolare sul giudizio che – a bocce ferme – si potrà dare sull’operato del governo Janukovic, analizzando pertanto la questione solo attraverso la lente del diritto internazionale, questa crisi si manifesta immediatamente in tutta la sua gravità. L’Ucraina è, innanzitutto, uno stato di diritto. Non c’è al potere una giunta militare, non ci sono squadroni della morte, rastrellamenti, processi sommari; vige un sistema politico multipartitico e pluralista, si tengono regolari elezioni, le libertà civili sono in ogni modo garantite. Alla luce di queste evidenti considerazioni, non si può attribuire ai “pacifici oppositori” armati di fucili Nato e Uzi israeliane qualsivoglia retroterra “morale” che giustifichi una sommossa di tale portata e di tale violenza. La rivolta nacque, ricordiamolo, per contestare una legittima decisione del governo di Kiev relativa ai rapporti dello Stato con l’Unione europea.
Ciò nonostante, i nostri mezzi di informazione perseverano nel definire “ragazzi”, “patrioti”, “studenti”, finanche “eroi” dei pericolosi soggetti resisi responsabili, solo negli ultimi giorni, della morte di decine di agenti di polizia e di militari, del sequestro di altre decine di poliziotti messi alla gogna e torturati, del saccheggio e dell’incendio di interi quartieri, di sedi istituzionali, di installazioni militari, di sedi di partito. Che girano armati assaltando e sparando a chiunque si trovi sulla loro strada, senza risparmiare i giornalisti che si trovavano sul posto. Cose che a chiunque le avesse fatte in Italia negli anni Settanta, Cossiga gli avrebbe fatto il “fondoschiena a strisce”. Cui in qualunque Paese del mondo si risponderebbe quantomeno con la legge marziale. Ma per loro no: sono “patrioti” che “vogliono l’Europa”.
Dinanzi a questo scempio, gli Stati Uniti e – di conseguenza – l’Unione Europea hanno intimato di cessare immediatamente le violenze… al governo (!). Hanno accusato il presidente Janukovic di essere “l’unico responsabile”, hanno minacciato sanzioni e ritorsioni di ogni sorta, hanno accusato di crudeltà le forze di polizia alle quali si dovrebbe invece, semmai, rimproverare solo un’eccessiva tolleranza e un ricorso quanto meno blando all’uso legittimo della forza.
Le abbiamo viste, le barricate ucraine. Abbiamo visto, sopra quelle barricate, sventolare non solo la bandiera dell’Ue, ma anche quella a stelle e strisce, quella sionista, quella dei terroristi siriani. Quelle barricate su cui tanti, troppi, si illudono di vedere giovani idealisti che sognano l’Europa, intrepidi eroi, addirittura “compagni” o “camerati”. Quelle barricate che invece, nella drammatica realtà dei fatti, fanno da testa di ponte a quel potere atlantico che vuole penetrare nel profondo del nostro continente, sacrificando un’intera nazione e riducendola al rango di riserva di manodopera a basso costo, di retrovia di badanti, di stato vassallo dell’impero americano.
Anche questa volta, per gli europei, non è il tempo dei “né – né”. E’ il tempo, per chi ha a cuore le sorti del nostro Continente, di scegliere una barricata: di certo, non quella dei rivoltosi, non quella dei banditi atlantici.

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