C’è un video che, in questi giorni, in Egitto è diventato ‘virale’, uno di quelli che sul web si trovano molto più facilmente di altri, condiviso dagli utenti internet di Alessandria, come di Luxor o di un remoto villaggio meridionale confinante con il Sudan; non si tratta delle canzoni di Hiba Majdi, la cantante più popolare del paese, né degli scherzi di Glash, un ragazzo che ha importato le candid camera in Egitto: al contrario, le immagini più diffuse sono quelle di un tassista de Il Cairo, anzi per la precisione di un autista di Tuk Tuk, il tradizionale ‘risciò’ che porta in giro i turisti nella capitale.
Il video delle parole urlate al veleno contro la classe politica di questo normale cittadino egiziano, spopola in tutti gli angoli del paese: intervistato da un giornalista, il tassista inveisce contro il governo, parla delle condizioni di vita del paese, diventa inconsapevolmente portavoce delle tante insofferenze degli egiziani, che oramai da tanti anni vivono condizioni sempre più difficili.
E’ questo l’Egitto del post rivoluzione; proprio sei anni fa di questi tempi (è nelle settimane a cavallo tra novembre e dicembre del 2010 che il mondo arabo ha iniziato ad essere attraversato dalla cosiddetta ‘primavera’) le piazze delle principali città del paese iniziano a gremirsi di manifestanti, il resto è storia ben nota: la caduta di Mubarak, la vittoria alle elezioni dei Fratelli Musulmani con Morsi nuovo presidente, fino alla deposizione di quest’ultimo nel luglio 2013 ed alla presa del potere dell’ex generale Al Sisi. In mezzo, anche tanti attentati, tanta instabilità e, con essa, l’acuirsi di una grave crisi economica che in questi giorni manifesta forse l’apice e rischia di far piombare il paese in un vero e proprio limbo sociale; non solo dati sempre più sconfortanti per quanto concerne inflazione e disoccupazione, ma anche una vita quotidiana che nei quartieri che ospitano la ‘classe media’ de Il Cairo inizia a diventare molto problematica.
Cresce il costo dell’energia, cresce il costo dei generi di prima necessità, dagli scaffali sparisce anche lo zucchero tanto che l’esercito, nelle scorse settimane, ha dovuto requisire intere buste dalle fabbriche e dalle industrie di produzione di generi alimentari (come, ad esempio, presso anche lo stabilimento della Pepsi Cola) per poter nuovamente rimettere in circolazione questo genere di primissima necessità nella cucina egiziana. Le ultime mosse della banca centrale, riguardano l’allentamento del controllo del tasso di cambio tra Lira Egiziana e Dollaro, il tutto dopo la constatazione che la vendita di moneta al mercato nero ha subito un’accelerazione vertiginosa; questa manovre, secondo molti analisti, hanno dato respiro ma al tempo stesso con sé portano anche aumento dell’inflazione e rischio di ulteriori eccessive svalutazioni.
Ma come mai un paese come l’Egitto, punto di riferimento culturale per il mondo arabo, si ritrova a combattere per la sua stessa sopravvivenza economica? I motivi sono tanti, alcuni hanno origini remote ed ataviche, altri invece dipendono dai cinque anni di instabilità post primavera araba; l’Egitto, in primo luogo, dipende in maniera viscerale dall’estero: acquista sostanzialmente tutte le materie prime di cui ha bisogno, è il più grande importatore di cereali al mondo, così come negli anni diversi sono stati gli aiuti finanziari forniti da altri Stati, sia diretti che indiretti (come ad esempio la vendita a prezzi stracciati di greggio da parte dei sauditi, che ad oggi è stata ridimensionata per via delle frizioni politiche con Riyadh). È chiaro che una situazione del genere rende il paese molto esposto alle crisi internazionali, oltre che ad essere ricattabile su varie questioni ed oggi l’Egitto in parte sconta anche il riposizionamento del paese in chiave geopolitica ed in particolare, come sopra accennato, gli attriti con l’Arabia Saudita. In tal senso, il presidente Al Sisi ha dovuto compiere una scelta nei mesi scorsi, quando ha potuto notare il crescere del malcontento della popolazione in occasione della cessione di alcune isole del Mar Rosso proprio ai sauditi: assecondare le richieste di chi ha appoggiato le ragioni del golpe da lui guidato nel 2013, con una fetta importante di paese che lo ha spinto in nome della laicità e della salvaguardia degli interessi nazionali, oppure dall’altro lato cercare di rimpinguare le casse prosciugate da anni di instabilità politica attingendo dai finanziamenti e dai favori sauditi. Il presidente egiziano ha scelto la prima strada, come dimostra il ritiro dalla coalizione guidata da Riyadh nello Yemen, l’avvicinamento a Mosca ed il sostegno ad Haftar in Libia; ma questo ha portato alla chiusura di alcuni canali vitali di approvvigionamento dell’economia egiziana ed ha acuito una crisi già molto estesa nel paese, aggravata poi dal crollo del turismo, una delle industrie più redditizie da sempre.
Il peggioramento della situazione sociale è stato lampante, specie nelle ultime settimane: molti cittadini, hanno potuto osservare l’aumento del costo dei carburanti e della luce, mentre diverse famiglie hanno difficoltà ad acquistare viveri di prima necessità, in alcune zone del Cairo si è anche provveduto ad una ‘razionalizzazione’ dell’erogazione di energia elettrica. Da qui, si arriva quindi al crescere del malcontento e, contestualmente, anche della popolarità del video del tassista della capitale che, tra le altre cose, durante il suo impeto di rabbia azzarda un paragone de Il Cairo con la Somalia. Al tempo stesso però, la popolazione non scende in piazza in massa come sei anni fa; una prudenza dettata dalla paura di un’imprevedibile instabilità, come dimostra quanto accaduto lo scorso 11 novembre, data di una delle manifestazioni convocate in tutto il paese contro la crisi economica. Il giorno scelto non è casuale: esso ricade appena tre giorni dopo le elezioni americane, che hanno visto in lizza Hillary Clinton, la stessa che da segretario di Stato nel 2011 ha scaricato Mubarak ed ha appoggiato i Fratelli Musulmani. In caso di vittoria della candidata democratica, l’11 novembre sarebbe stato il giorno ideale, per i tanti esponenti della ‘fratellanza’ messa al bando da Al Sisi, di sfruttare la vicinanza con l’eventuale nuova inquilina della Casa Bianca per provare a mettere a ferro e fuoco nuovamente l’Egitto; non è un caso che Al Sisi è stato poi il primo capo di stato in carica a chiamare Donald Trump per congratularsi della vittoria: l’11 novembre le manifestazioni si sono tenute in tutto il paese, ma non hanno avuto un grosso seguito.
È proprio a Washington che adesso guardano i dirigenti egiziani: è stato chiesto un prestito di 12 miliardi di Dollari all’FMI, le trattative vanno avanti e prevedranno tagli ai sussidi governativi ed altre riforme dolorose, una delle quali già applicata ed è inerente l’introduzione dell’IVA al 13%. Misure dure, che però rischiano di non bastare: la vera sfida dell’Egitto di Al Sisi è quella di cercare di dipendere meno dalle importazioni e dagli aiuti internazionali, la posta in gioco non riguarda soltanto il miglioramento delle condizioni di vita della stremata popolazione egiziana, ma anche la salvaguardia della propria integrità sociale e della propria sovranità.
FONTE: Gli Occhi della Guerra