Belgrado, 17 marzo 1941. Su 57 autocarri sono caricate 1.300 cassette di legno, sulle quali è stampigliata la scritta Banque Nationale Royame de Jugoslavie, Caisse Centrale. Ciascuna cassetta è numerata in rosso e contiene 55 chili d’oro fino in lingotti, per un totale presunto di 60 tonnellate. Su altri otto autocarri viaggia un altro tesoro: fondi neri di generali e ministri jugoslavi in fuga al seguito del re, per un totale di 64,494.177 dinari, 223 mila franchi francesi, 175 mila corone, 76.675 mila dollari. Poi c’è un terzo tesoro, quello della corona: sacchi di ruvida tela che contengono 500 milioni di dinari in biglietti da mille, e un imprecisato numero di casse piene di gioielli e monete d’oro. Il 14 aprile, sotto la scorta di cento uomini, il convoglio arriva a destinazione nei pressi di Cattaro, ma nel frattempo la situazione militare crolla: fra il 9 e il 13 aprile l’Italia occupa la Dalmazia fino alle bocche di Cattaro. Il 15 aprile il tenente di stato maggiore che comanda il prezioso convoglio, riceve l’ordine, in attesa dell’imbarco per l’Egitto, di nascondere il tesoro in una caverna naturale a due chilometri dalla città di Niksic, sulla strada per Podgoriza, vicino alla base navale di Cattaro: la caverna dei sette ladri, così chiamata per via di sette banditi che nell’Ottocento vi nascondevano il frutto delle loro scorrerie.
Il giovane re Pietro volle però che il tesoro della corona fosse nascosto nelle grotte del monastero del patriarca Gavrilov, sul monte Ostrog. Tenne per sé 15 milioni di dinari per le spese personali e per la fuga. Intanto il 17 aprile l’Italia con le divisioni Centauro, Messina e Marche, occupa l’intero Montenegro, e improvvisamente, il piano del governo jugoslavo e dell’ambasciatore inglese per imbarcare il tesoro, diventa impraticabile. Entrano in scena i servizi segreti militari italiani. Il generale Mario Roatta localizza l’oro jugoslavo attraverso il generale Riccardo Pentimalli, comandante della divisione Marche, e fa piantonare la caverna. Entra in scena Licio Gelli, che all’epoca è in Jugoslavia al seguito di un ex federale di Pistoia, Luigi Alzona, diventato rappresentante del Servizio Informazione Militari (Sim). E’ proprio Gelli a proporre l’idea di un falso treno ospedale diretto a Trieste, per trasportare il tesoro jugoslavo. Con questo stratagemma il tesoro raggiunge l’Italia, i cinque vagoni che lo trasportavano furono parcheggiati in un binario morto dopo la stazione di Trieste. Lì, Alzona e Gelli lo consegnarono ad altri agenti del Sim.
A questo punto, il bottino si divise: otto tonnellate d’oro furono consegnate alla Banca d’Italia, le altre per la maggior parte furono nascoste dagli stessi funzionari della Banca d’Italia in varie località segrete, dove restarono fino alla liberazione di Roma sotto il controllo del governatore Azzolini, di Roatta e di Pentimalli. In questo quadro si inserirebbe un incontro tra Licio Gelli e Palmiro Togliatti, nella sede romana del Pci, dove Gelli sarebbe giunto scortato da tre ex partigiani comunisti, incaricati dal Cln, al comando di Bruno Tesi. Perché ci sarebbe stato questo incontro? Gelli voleva un appoggio per far sbiadire i suoi trascorsi fascisti? Forse voleva parlare del malloppo jugoslavo, barattando l’informazione con protezioni politiche? Di certo si sa che in questo periodo del presunto colloquio con Togliatti, Gelli ebbe vari contatti con esponenti responsabili del Pci. Nel 1945, via mare e in gran segreto, 27 tonnellate d’oro del tesoro jugoslavo furono restituite a Tito. Solo nel 1947, ufficialmente, furono restituite le otto tonnellate conservate nelle casseforti della Banca d’Italia.
Nel frattempo i protagonisti della vicenda dell’oro jugoslavo, Roatta, Pentimalli, Azzolini e Gelli, approdano con pochi danni dal regime fascista a quello democratico. La scure dell’epurazione non colpì nessuno dei quattro protagonisti, che alla fine furono tutti riabilitati nel secondo grado di giudizio, perché “ingiustamente” condannati. Secondo Gianfranco Piazzesi, autore del libro “La caverna dei sette ladri” (Baldini & Castoldi, 1996), dopo l’incontro con Togliatti, Gelli poté entrare nell’isola della Maddalena sotto la tutela degli americani, dove lo raggiunse la moglie e il resto della famiglia, tutti al sicuro da eventuali vendette partigiane. Il suo iter giudiziario fu davvero poco drammatico. Fu spedito nelle carceri di Cagliari e di Napoli. A Regina Coeli, poi, condivise la cella con Junio Valerio Borghese, il principe nero, ex comandante della X Mas. Nel 1947 fu in carcere a Pistoia, poi a Firenze con l’accusa di collaborazionismo. Nel 1947 Togliatti, ministro della giustizia, promulga l’amnistia, dalla quale sono esclusi solo i colpevoli di sevizie particolarmente efferate. Gelli ha collaborato con i nazisti, ma si è fatto anche vedere a fianco dei partigiani e i documenti del Cln sono tutti a suo favore. Gelli rientra a pieno titolo nei casi previsti dall’amnistia. E il tesoro? Oltre venti tonnellate d’oro restarono in mani misteriose.
(Lara Pavanetto, “La caverna dei sette ladri, ovvero come l’esercito italiano trafugò l’oro jugoslavo grazie a Licio Gelli. Cattaro 1941”, dal blog della Pavanetto, 5 ottobre 2014).