La bellezza e la magnificenza di un sito storico, consiste nel poter far toccare con mano la trasformazione di un oggetto ‘freddo’ e banale, come una pietra, in un simbolo che serve a preservare la storia e la cultura di un intero popolo; è per questo motivo che, nei secoli passati, la scoperta di Pompei e gli scavi che in giro per il mondo hanno fatto affiorare la civiltà classica hanno sempre affascinato e richiamato la curiosità di chi vuole collegare, in un unico filo, l’eredità lasciata dai popoli a noi precedenti con il futuro. Sta in questo l’importanza, per la Siria, di Palmyra: quelle pietre, che da duemila anni resistono al sole del deserto, testimoniano la ricchezza culturale di una nazione che ha visto passare in queste lande comprese tra il Mediterraneo e la Mesopotamia i popoli che hanno permeato la storia dell’umanità e della nazione mediorientale.

La nuova barbarie dell’Isis a Palmyra

Nel commentare, con giusta e doverosa indignazione ciò che i miliziani del califfato stanno commettendo nella ‘perla del deserto’ siriano, spesso viene usata la parola ‘barbari’: quei membri vestiti di nero che buttano giù colonne e pietre di un sito patrimonio dell’umanità, come quello di Palmyra, sono in effetti personaggi che non hanno il rispetto della storia ma che al contempo conoscono molto bene l’importanza di un simbolo. Tirare giù parte del proscenio del teatro antico della città siriana, non è un atto di vandalismo giustificato dall’iconoclastia jihadista, è atto di lucida e calcolata follia di chi ha interesse a tagliare ogni simbolo con il passato: l’ISIS, nel distruggere, non attua mai strategie ‘confuse’, bensì uno specifico piano volto a cancellare la storia, la cultura e l’identità della Siria. Per i miliziani, ogni pietra resa nuovamente (dopo duemila anni) polvere del deserto, significa un passo avanti verso il proprio folle progetto di cancellare un intero patrimonio nazionale.

Una barbarie che però, a differenza di quella effettuata da quei barbari che distruggevano per saccheggiare durante gli anni di agonia dell’Impero Romano, in questo caso è lucidamente studiata per privare un popolo dei propri simboli: l’ISIS, in particolare, sa bene che fra non molto passerà su quei libri di storia che secondo la propria ideologia dovrebbero essere stravolti e bruciati assieme ai resti di Palmyra, per cui fa di tutto per dimostrare la propria forza nel saper inorridire e nel saper terrorizzare, non solo con atrocità che i raccapriccianti video dei miliziani mostrano da tre anni a questa parte, ma anche con la sistematica distruzione di siti archeologici e di beni appartenenti all’identità siriana. In poche parole, l’ISIS distrugge i simboli non perché non conosce, in maniera ‘barbara’, ciò che essi rappresentano, ma compie razzie proprio perché i suoi miliziani sanno bene la portata di tali simboli e ciò di cui verrà quindi privato, anche a guerra finita, il popolo siriano.

La Siria potrà anche essere ricostruita come Stato e Damasco potrà, si spera fra non molto, recuperare tutto il territorio perso negli anni di questo ignobile conflitto, ma il senso comune di nazione siriana sarà per sempre compromesso senza quei luoghi di cui, fra due o tre generazioni, non resterà che polvere tornata a mescolarsi nel deserto. La mostruosità dell’ISIS sta proprio in questo: è difficile rintracciare nella storia un movimento militare/ideologico che mira a distruggere dalle fondamenta un intero patrimonio culturale e popolare. A Palmyra come nell’antica Ninive, in Siria come in Iraq, la lucida follia jihadista sta privando per sempre queste nazioni di testimonianze vitali per il futuro della regione mediorientale; il teatro romano, il cui proscenio è stato parzialmente distrutto nelle scorse ore dall’ISIS, è sì patrimonio dell’umanità ma al contempo è simbolo vivo di un’identità nata dal confronto tra tante culture di epoche diverse.

Le responsabilità delle distruzioni di Palmyra

Era stata recuperata questa antica perla del deserto, i soldati russi e siriani erano riusciti a strappare dalle grinfie del califfato anche le rovine già duramente messe alla prova dalla prima presenza dell’ISIS a Palmyra: la città, conquistata dai miliziani nel maggio 2015, era stata liberata nello scorso mese di marzo, salvo poi cadere nuovamente a dicembre. Pochi mesi di illusione che tutto fosse finito e che la Siria, a guerra finita, avrebbe potuto contare sui propri simboli per ripartire; in guerra, purtroppo, i calcoli diventano cinici e spietati: Palmyra era troppo esposta a quel suo deserto per essere difesa senza difficoltà, a causa dei continui assalti dell’ISIS sia i siriani che i russi hanno dovuto procedere ad un ordinato ripiegamento per accorciare le linee del fronte e conservare i punti strategici ad est di Homs.

Ma la responsabilità delle continue distruzioni di Palmyra, del danneggiamento dell’arco di Trionfo avvenuto a maggio e della recente carica esplosiva che ha fatto saltare in aria parte del teatro e parte di altri importanti templi, è di quegli stessi attori che hanno permesso all’ISIS di dilagare in medio oriente: i finanziamenti a suon di petrodollari delle monarchie del golfo, gli affari fatti con i jihadisti da quella Turchia che oggi fa marcia indietro e subisce il ‘terrorismo di ritorno’, le complicità dei governi occidentali che hanno chiuso tanti occhi di fronte a questi scempi pur di abbattere Assad, la caduta di Palmyra e la distruzione dei suoi simboli è opera non solo dei miliziani vestiti di nero ma anche di chi non ha guardato in faccia la tragica realtà pur di destabilizzare la Siria ed il medio oriente.

Le grida dell’ONU e della fantomatica comunità internazionale altro non sembrano che mere lacrime di coccodrillo; è troppo tardi, e lo si poteva ben immaginare, per evitare altri scempi a Palmyra. Mentre l’occidente spegneva i suoi simboli per solidarizzare con gli elmetti bianchi di Aleppo, i simboli della Siria sono stati lasciati alla mercé di jihadisti senza scrupoli e solo per meri interessi politici ed economici. In queste ore in cui i fondamentalisti si accaniscono contro le pietre di Palmyra, a perderci è indubbiamente l’intera umanità essendo il sito siriano un bene sotto (l’effimera) tutela UNESCO, ma in realtà a perderci maggiormente è la Siria: una nazione in guerra, senza pace e, sempre di più, senza i propri simboli della propria identità.

Gli Occhi della Guerra

 

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