Il premier rivendica il mezzo milione di posti di lavoro creati da quando è al governo, ma dimentica che le (poche) assunzioni sono frutto di un doping di Stato. E come non bastasse omette di menzionare l’aumento pazzesco delle prestazioni pagate tramite voucher, che certificano una realtà ormai innegabile: la riforma del lavoro ha prodotto solo sgravi fiscali a tempo determinati, che hanno creato schiere di precari a tempo… indeterminato!
“L’obiettivo primario del Jobs Act è creare nuova occupazione stabile”. Il ministero del Lavoro, sul sito dedicato , è lapidario: la riforma del Lavoro voluta dal governo con un nome anglosassone mira prima di tutto a sconfiggere il precariato.
E secondo il presidente del Consiglio Matteo Renzi si tratta di una battaglia vinta. Il 12 settembre scorso, infatti, il premier twittava soddisfatto, citando i dati Istat. “Dati ufficiali di oggi. Nel II trimestre 2016 più 189mila posti di lavoro. Dall’inizio del nostro governo: più 585mila. Il #JobsAct funziona.”
Eppure appena quattro giorni prima un altro esponente del governo aveva fornito dati che sembravano andato in direzione opposta al trionfalismo renziano. Secondo le cifre del ministero del Lavoro, infatti, nel secondo trimestre del 2016 i nuovi contratti a tempo indeterminato erano scesi del 29,4% rispetto all’anno scorso, a fronte di un calo del 12,1% dei contratti totali e di un calo dell’8,9% dei nuovi assunti.
Non solo. Trascorre un’altra settimana e l’Inps certifica il calo del 33% delle assunzioni a tempo indeterminato negli ultimi sette mesi rispetto allo stesso periodo del 2015. Questa contrazione, specificano dall’Istituto di previdenza “va considerata in relazione al forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nel 2015 – anno in cui si poteva beneficiare dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di tre anni. Analoghe considerazioni possono essere sviluppate per la contrazione del flusso di trasformazioni a tempo indeterminato (-36,2%).”
Un altro schiaffone per il governo, un’altra domanda per i lettori di giornali? Dove sta la verità? Nei dati Istat citati da Renzi o nei numeri forniti dal ministero e poi nelle cifre pubblicate dall’Inps?
Come mai questa – almeno apparente – discrasia? Una prima spiegazione si può trovare facendo riferimento al boom dei voucher (di cui avevamo già scritto qui) , che nei primi sette mesi dell’anno in corso sono stati addirittura 84 milioni. Uno sproposito, che però consente di gonfiare le statistiche sugli occupati, omettendo di ricordare come le garanzie siano in questo caso praticamente inesistenti.
Inoltre bisogna considerare che quelli che Renzi chiama surrettiziamente “contratti a tempo indeterminati” sono in realtà contratti a tutele crescenti, nonostante Palazzo Chigi cerchi di presentarli all’opinione pubblica come se l’abolizione dell’articolo 18 non ci fosse mai stata.
Come ricorda Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, secondo i dati del ministero del Lavoro i licenziamenti sono aumentati del 7% in un anno. Insomma, finché ci sono gli sgravi fiscali qualche assunzione ci scappa anche, tanto poi licenziare è diventato molto più facile.
Se mai ci fosse bisogno di conferme, è infine acclarato che il mercato del lavoro è andato in debito di ossigeno non appena sono venuti meno gli incentivi fiscali per le imprese introdotti dal Jobs Act.
Le aziende hanno cioè iniziato ad assumere in concomitanza con l’avvio della decontribuzione, ma senza che si innescasse alcun circolo virtuoso, almeno per ora. Siamo arrivati al paradosso per cui più di un osservatore ha auspicato il prolungamento degli incentivi, per tenere a galla una barca che affonda.
Il tutto ad un prezzo non indifferente. Secondo uno studio di Marta Fana e Michele Raitanoper “Etica economia”, il costo lordo di tre anni di decontribuzioni costerà ai contribuenti fra i 14 e i 22 miliardi di euro, di cui sei solo nel 2015. Viene da chiedersi se il gioco valga la candela.
FONTE: Capire davvero la crisi