
Con la NSM – presentata in pompa magna alla recente COP21 di Parigi, anche se impostata nel lontano 2010 – l’India aveva in progetto di aumentare la quota di energie rinnovabili nel mix energetico. Il 71% dei 255 GW prodotti entro i suoi confini, infatti, viene dal carbone, mentre solo 3 GW di energia elettrica vengono dal solare e 20 GW dall’eolico. Stabilito nel 2010 come parte del piano d’azione nazionale dell’India sul cambiamento climatico, l’obiettivo ambizioso del programma è quello di generare ben 100 GW di elettricità l’anno da fotovoltaico entro il 2022.
Washington aveva intentato la causa tre anni fa, nel 2013, sostenendo che il programma indiano di sviluppo del fotovoltaico, la National Solar Mission (NSM), discriminasse illegalmente i pannelli solari importati e tutti i prodotti connessi. In effetti il piano indiano – non illogicamente – mirava in parallelo anche a potenziare la nascente industria del solare fotovoltaico del Subcontinente, garantendo una quota di domestic content requirement (DCR) pari almeno al 50%: in altre parole, almeno il 50% dei materiali e della manodopera utilizzati per costruire i parchi fotovoltaici sarebbero dovuti essere ‘made in India’. Questa clausola è stata definita “incompatibile” con le norme internazionali dalla Wto. In un comunicato, Michael Froman, il rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, ha definito la sentenza una vittoria significativa che accelererà i tempi sugli investimenti di energia solare in tutto il mondo e sosterrà i lavori di energia pulita negli Usa.
Contro la decisione del Wto l’India presenterà sicuramente ricorso. Negli ultimi mesi il paese guidato dal premier Narendra Modi aveva avviato diversi tentativi di negoziazione con il Wto e con gli Usa, accettando persino di modificare il suo programma limitando la clausola ‘DCR’ a progetti statali – come progetti di difesa o ferroviari – e non privati. Non è bastato.
Insomma, se la terza economia dell’Asia ha un problema cronico di blackout, scarso accesso all’energia e iperdipendenza dal carbone, lo deve risolvere senza sperare di far crescere, grazie a una protezione almeno temporanea, una propria industria innovativa che un giorno possa competere ad armi pari. Per non parlare dei posti di lavoro e della formazione di personale qualificato e di ricercatori. Al contrario, gli investitori esteri – americani, cinesi, europei, giapponesi – hanno tutto il diritto di trovare spazi di mercato sul territorio altrui, impedendo lo sviluppo di una vera concorrenza. Come afferma Sam Cossar-Gilbert di Friends of The Earth International, “la decisione del Wto dimostra come le arcane regole del commercio possano essere utilizzate per minare i governi che sostengono l’energia pulita e i posti di lavoro locali. Le norme commerciali correnti limitano la capacità dei governi di sostenere l’energia rinnovabile locale e di fatto le politiche commerciali stanno impedendo un futuro sostenibile. I governi devono essere liberi di attuare la politica climatica”.
Se non si cambia rotta, fanno rilevare gli ambientalisti, ci rimetterà l’India, ma anche il mondo intero: l’India è infatti il terzo più grande emettitore di gas serra al mondo, e ha 300 milioni di persone che vivono senza elettricità. Non potrà che ricorrere al carbone.
Fonte: La Stampa