Questo è Cefis 2

Gli strumenti dell’imperialismo

di Giorgio Steimetz

L’inquadratura sinottica dei primi due sovrani nell’impero petrolifero italiano ci ha mostrato diverse note somatiche e psicologiche assolutamente divergenti, per indole o per libera elezione; una identica matrice storica la Resistenza e non pochi dati in comune: la temerarietà delle imprese, sovente irrazionali e rocambolesche, ma condotte sempre in porto (come avremo occasione di verificare); l’immunità che sempre li salva, sorta di crisma di infallibilità laica inespresso ma accettato (e pagato); la conquista, fondamentale, del mercato politico, di posizioni-chiave, di entrature e credenziali.

Del fascismo, regime totalitario e corrotto, ci siamo liberati grazie a Cadorna, a Parri, a migliaia di anonimi antifascisti che offrirono (e ci lasciarono) la vita, senza avere in cambio nient’altro che la stima riconoscente dei galantuomini, democratici sinceri.

Ma qualcosa è rimasto, non solo nella frangia estremista di destra. Il culto della personalità, ad esempio, l’alone mistificatorio di leggenda e genialità riservato a pochi campioni.

Sia qualunquistico retaggio del recente passato, vizio strapaesano o componente esclusiva della natura umana, poco importa. Fatto si è che i santoni si collocano sul piedestallo, si incensano, si temono; si corre da loro perché intercedano, si sottoscrivono tacite polizze sulla carriera, si esaltano e non si toccano. Se l’uomo è mediocre tanto meglio, ci pensa la claque manovrata, lo rifiniscono cervelli robusti, ingegni eccellenti, tecnici di vaglia.

Mediocre, Eugenio Cefis? Mediocre, l’ex Presidente, Mattei? Sarebbe come mettere in dubbio la qualità della potente benzina italiana: pochi barili a Cortemaggiore e Bordolano che un Carneade cane come l’ing. Fiacca seppe scovare in questa nostra patria dal sottosuolo instabile ma ricco di reperti archeologici e di necropoli, ma così avara di fossili commerciabili, di minerali di oro nero. Invertiamo pure gli addendi, il risultato non cambia. Potente la benzina, potente il padrone. Fedelissimi i clienti e i produttori.

Grazie a questi ultimi – la staff rarefatta di specialisti affetti dal culto della personalità e da indiscutibili talenti d’ingegno – la scalata anche alla Montecatini, con la complicità interna di altissimi funzionari insofferenti e ambiziosi e l’appoggio esterno dei congiurati-esperti citati, ai danni dei piccoli azionisti e per conto di Cefis. A spese di quarantaseimila operai-azionisti dell’unica azienda in Italia a poter vantare questa partecipazione di massa al capitale, come dice quel gentiluomo inarrivabile che risponde al nome di Carlo Faina, ex Presidente e vittima in pectore di Valerio, prima, e di Cefis, dopo.

La maschera e il volto

Quanto a fiuto, Mattei prima, Cefis oggi, battono con diverse lunghezze quello del celebre cane a sei zampe, mascotte della Casa. Può darsi che la genialità coincida con l’odorato; nel nostro caso è fuor di questione. Il naso all’aria, a sentir fremere le occasioni, a scrutare la direzione dei venti e il corso delle stelle (politiche). Comunque prima di diventare il barone del (fantomatico) petrolio italiano, Cefis non pareva un genio, né l’accompagnava, fausta, la cometa dal breve spazio celeste del Friuli alla grande metropoli lombarda.

Ma ecco la bacchetta magica, il colpo di fortuna, l’occasione storica; negli anfratti delle Montagne (sacre, e con la maiuscola, ai fasti dell’epoca), la guerriglia, la macchia, i sabotaggi, i colpi di mano di quell’episodio eccezionale della nostra ultima fase risorgimentale che è la lotta per la Liberazione.

Forse indugiamo e ritorniamo troppo spesso su questo momento biografico, determinante nella vita e nelle fortune dei grandi patrons dell’ENI. Certo che oggi come ieri sembra che la battaglia non sia finita: per lunghi anni, appunto, il ridanciano e grassoccio settimanale «Borghese» per antonomasia ha sparato a zero proprio sul vecchio lupo dell’AGIP. Se attualmente le batterie tacciono – benché la caccia al fascista abbia sostituito quella alle streghe nella civiltà dei consumi – vuol dire che Eugenio Cefis, questo personaggio che sembra l’edizione borghese e capitalistica dell’Abbé Bonissan, di Bernanos, ha saputo fare meglio del predecessore. Ridurre al silenzio e con argomenti persuasivi, è uno dei tratti di ingegno più rimarchevoli del Presidente dell’ENI.

Freddo e distaccato, sprovvisto di calore umano; cortese quel tanto che basta a salvar le forme e a rimanere nel clichè dell’operoso, distratto ma condiscendente, altissimo manager; dotato del tipico sottocontrollo di chi è arrivato e non ha più ginocchi da piegare e sorrisi da incorniciare; sufficiente con eleganza; temperante nelle effusioni di prammatica, sino al gesto confidente d’una sigaretta per attenuare, formalmente, le distanze, minuscola dose di oppio emblematico. Compassato e in apparenza sempre sicuro del fatto suo, intriso di presunzione metafisica dovuta all’usura del ruolo e abbastanza banale per risultarne assolto e giustificato.

Sotto il velo di raffinato distacco, il profilo autentico del despota, villoso in petto ma assolutamente privo di peli sulla lingua, la battuta sferzante, il pollice verso per abitudine – per chiunque lo contraddica; pronto a stroncare la minima riserva dell’interlocutore con un dosaggio intensivo di cifre e di bilanci. Oltre l’arroganza sufficiente dei toni, il vuoto metafisico della logica a senso unico. Alternativa sprezzante, offerta da villano a villano a chiunque si ponga di traverso sulla sua strada. Cefis non può che aver sempre ragione: se non gliela concedi, la esige. I veri capitani d’industria non ostentano lo stile asciutto dei mercanti di cavalli: ma Cefis, come i nobili creati da Napoleone, non è un blasonato autentico dell’Ancien Régime; è soltanto un parvenu. Che parla a scatti, tracciando su un foglio bianco freudiani i ghirigori che uno psicanalista potrebbe qualificare come libido di Piano, ossessione dei suoi piani. Poi il meccanismo oratorio s’arresta: non squadra l’interlocutore, ma lo fiuta, lo sonda, lo trivella così, messo alle corde, degnandolo d’una replica, d’una pausa, di un invitante silenzio. Alle obiezioni, alle riserve, alle timide contestazioni, indirizza il knock-dawn risolutore, quel mitico ri¬baltamento di cui farnetica come invasato, accezione onirica di tutto il suo mondo.

Il primo della classe

Che cos’è questa mistica dottrinaria del ribaltare?

Il rovesciamento di politiche tradizionali, persistenti benché scadute, sopravvissute nonostante i tempi le abbiano condannate al dileggio; il superamento di steccati storici, dalla sua posizione preminente intesi come grotteschi e grossolani pretesti dialettici in cartapesta; nuove politiche per nuovi corsi: integralmente sperimentabili all’economia, alle alleanze di governo, alle maggioranze futuribili, ai giochi della diplomazia internazionale; egualmente pret-à-porter, compatibili insomma, con la strategia del petrolio, l’editoria, la stampa, le stesse opere di bene.

Astutissimo, non gli serve molta cultura e non spreca quel tanto che si legge sul suo libretto di risparmio. Spericolato, non gioca in borsa con titoli iscritti alla prudenza: altri caso mai potrà (o dovrà) pagare. Preferisce il rischio al calcolo, potendosi permettere il lusso di pochi nemici e molto onore. Del quarto potere, la stampa, affetta distaccata sufficienza. Novello Stilita, s’accoccola e ammira, alto sull’orizzonte, gli altri: emeriti imbecilli o, meglio, oneste nullità.

Della classe politica dirigente, a tutti i livelli, manifesta tanta simpatia e deferenza che riesce parlandone addirittura a sfoderare qualche battuta sarcastica, lui, negato a qualsiasi vena (ufficiale) di humour e d’ironia. Degli industriali, anche intoccabili e venerati, esprime (magari col silenzio e con i soli fatti) la più disincantata disistima. Valerio, Pirelli, Pesenti, Agnelli: concorrenti temibili, da emarginare nella lotta di classe, un po’ come noi col portalettere che ha perso una raccomandata. Quand’anche usasse dei riguardi verbali nei loro confronti, basterebbe il sistema col quale gestisce il suo monopolio di Stato, la disinvoltura delle sue mosse finanziarie o strategiche per smentirlo totalmente.

Quanto agli ecclesiastici, quinto potere, è un po’ difficile coglierne un giudizio, limitato comunque a coloro che portano almeno la fascia rossa o altre insegne di rango. Una casta a sè, probabilmente, con la quale lui ha poco da spartire anche se molto da dire. Certo con l’alto clero la sua tattica si affina e si conforma: arriva a piegare il ginocchio, chinando il capo fiero e spelacchiato al bacio del sacro anello sensibile all’atavica, lontana ma possente voce degli autentici padroni, coi quali è sempre bene tener aperto e cordiale il dialogo. Ma sbrigato con disinvoltura il gesto d’omaggio, un po’ blasé e decaduto, riprende la sua facondia, ad illustrare l’ultimo piano bianco, o giallo, o rosso, a seconda che delimiti il new deal di Eugenio Cefis nelle opere buone, nella politica dell’ENI, nel ribaltamento delle strutture. Il tono sempre rigido, concettuoso, inalterabile di chi non può sbagliare.

Col portinaio è facile aver sempre ragione: un mezzo sorriso, un cenno del capo, un’occhiata. Ma con gli emiri del braccio ecclesiastico il compito è più arduo Cefis allora intensifica la propria verve ipnotica, giungendo sino al risolino allettante, astuzia sottile del proletario furbo e fortunato che riconosce ancora alla Provvidenza una minima aliquota di merito nella propria, autosuficiente carriera.

Il tutto sul filo elastico dell’azzardo: ma può, un patron che si rispetti, ignorare le regole del rischio?

Il nababbo degli investimenti a vuoto

La legge istitutiva dell’ENI lo impegna a svolgere attività di ricerca petrolifera nel sottosuolo italiano. È naturale. Mattei prima, Cefis dopo, in barba a statuti, a dispetto di governi, di Parlamento, di buonsenso (e ai limiti, come porremo in evidenza, con le stesse norme giuridiche), snobbano ampiamente le ricerche di metano e i rivoletti di petrolio nazionale, già sfruttati al massimo.

Anch’essi, alla stregua di milioni di compatrioti emigrano: vanno all’estero, come magliari di lusso, a far concorrenza alle Sette Sorelle. Un posto al sole, di infida memoria, Mattei e Cefis hanno cercato di garantirlo all’Italia. Nel ’58 l’ENI investe in Marocco dai 12 ai 15 miliardi con la SOMIP, ma si sa come vanno queste cose. Pazienza, di oro nero nemmeno l’ombra. Nel Sudan (1959), altri pozzi inghiottono miliardi e non regalano un barile di petrolio. Dopo l’intermezzo libico, dieci miliardi in Somalia cinque milioni al giorno circa per azionare le sonde senza conclusioni migliori. Finalmente il Golfo Persico, con lo Scarabeo, la piattaforma galleggiante dell’ENI, e il petrolio si trova; profitto iniziale subito annullato dalle contemporanee, inutili trivellazioni nel massiccio montuoso dello Zagros, un anno di lavoro a quota 3350.

Episodi sfortunati, inevitabili Quanti miliardi non hanno sacrificato finora le grandi Compagnie Petrolifere in prospezioni, sondaggi, tentativi, buchi nell’acqua? Ma nessuno piange lacrime di coccodrillo per le sventure (occasionali) di società private che hanno bilanci in milioni di dollari Quando si tratta di povere lirette, e per di più rilevate dallo Stato ai contribuenti e girate al cane a sei zampe, vien voglia di trasferire quel poco che abbiamo in una banca svizzera. Miliardi e scalogna nera per l’ENI. Lo stellone non aiuta lo stallone di Stato…

Una morale? Ma non sta il Principe al di sopra delle convenzioni e delle pastoie che avviliscono la giornata ai comuni mortali? Certe imprese che hanno, per costituzione, un margine di rischio da capogiro, devono essere tentate da compagnie e da capitali privati. Quando i soldi sono del contribuente, il denaro non lo si gioca alla roulette, mettendo la posta in tappeti persiani, da 25 milioni l’uno (forse qualcosa ne sanno i mitici Budda di Enti di Stato). La morale è tutta qui. Si dirà che in caso di successo, l’impiego di capitali avrebbe dato il cento per uno. Ma allora è meglio che l’ENI compri tutti i biglietti della Lotteria di Capodanno.

Un’altra considerazione, elementare. Se l’Italia ha bisogno di metano per i pozzi in via di esaurimento, per certe condotte che si rivelano sbagliate (come diremo più avanti, accennando al rifornimento di gas made in Libia ed URSS), per far da calmiere ad altre, più onerose forme di energia elettricità, carbone, gasolio , non si possono senza batter ciglio trasferire interi com¬plessi che costano un occhio della testa, intere squadre di tecnici e operai specializzati, per tentare l’avventura dell’oro nero marocchino, sudanese, somalo.

Non tutta la colpa va riversata sulla memoria, rispettabile, di Enrico Mattei, perché Cefis, a quel tempo, ne condivideva la politica e le responsabilità. Dopo il buon gigante (egoista) di Matelica e il breve, grigio interregno di Marcello Boldrini, Eugenio Cefis ha sulle spalle la piena e diretta partecipazione a questo sogno di grandezza, abbastanza stolto e sperimentato per temere di definirlo, in una parola, fascista. Grande e nobile cosa l’aver combattuto il regime, ma altrettanto allucinata demenza il copiarne integralmente i fasti, il trionfalismo, l’impero del petrolio.

Evasioni ed avventure d’alta scuola

Alla spericolata politica d’investimento estero dell’ENI fa da (sconcertante) controfigura l’azione interna.

Ignorando i dettami statutari e dilatandosi con l’agilità istrionica che ne esalta la leggenda, si è fondato un quotidiano, incamerata un’agenzia di stampa delle più stimate – l’«Italia» -, assorbita, con tutto il passivo costante, la «Lanerossi», comprata la « Pignone».

Fare un elenco delle Società in cui una delle sei zampe del cane rossonero ha graffiato, chiederebbe l’impiego di buona parte dei caratteri fusi per la Treccani. Diciamo soltanto che l’espansione dell’ENI, la proliferazione dei suoi interessi, il salvataggio di aziende, lo sviluppo di nuove entità industriali e finanziarie è stata iniziata da Mattei e portata avanti con indomita fermezza dal successore. Alla base una contorsione globale di interessi, di calcoli, di rischi, per imporre la dittatura dell’oro nero, per alimentare gli abbeveratoi del sottobosco, per garantirsi immunità e deferenza.

Tutto può servire a consolidare uno stato nello Stato. Non si racconta del tentativo di Mattei, dopo il ripudio di Soraya, per far coincidere le due corone – Savoia e Shainsha Pahlevi -tra il monarca iraniano e Gabriella, gentile e irrequieto rampollo di Umberto e Maria Josè? Una favola per rotocalchi o un’autentica prospettiva (mancata) per raggiungere certe posizioni di privilegio al patrono, in quella terra caldea, così ricca, appunto, di petrolio? Lasciamo andare: se non è vera, è indubbiamente verosimile.

Con la Montedison, Eugenio Cefis avrà più fortuna: per sottrarla all’eventuale acquirente che gli avrebbe dato fastidio, per salvare l’ANIC da un concorrente temibile, non rimaneva che conquistarne il pacchetto azionario e controllarla agevolmente. I sistemi adottati, come tutti sanno, non brillarono né per eleganza né per saggezza; ma il boccone, benché drogato soltanto al 3%, si può facilmente inglutire con buone dosi di bicarbonato o di altri, più congeniali, colagoghi.

Steppe e deserti della Valle Padana

La stanza di compensazione funziona egregiamente all’ENI. Chi mai va a controllare se gli impianti di perforazione previsti per ricerche su suolo nazionale sono da anni emigrati con le risultanze che sappiamo? Il codice non configura il reato analogico: «distrazione di sonde ed equipaggi», come autentico peculato. Declassabile a semplice, involontario dirottamento di mezzi, se in Italia, nel frattempo, grondasse metano dai cornicioni. Invece il gas nazionale non basta affatto.

Ecco allora l’ultima sublime trovata di quell’ingegnaccio di Eugenio Cefis: immettere néi metanodotti italiani l’ottimo gas straniero.

I1 sottosuolo italiano, stando alle ricerche effettuate, rivela qualche giacimento non trascurabile di gas metano. Tuttavia non si può parlare di ricchezza. I sondaggi procedono a tentoni, un po’ dovunque, senza un’organica pianificazione. Attualmente sono intensificati nell’Adriatico e tra la Sicilia e Pantelleria, in pool con altre compagnie petrolifere, sempre inseguendo il mitico oro nero dello zoccolo mediorientale che dovrebbe raggiungere l’area del Mediterraneo.

Nel frattempo occorre far fronte alla richiesta interna, comprando dal Gheddafi le scorte necessarie. Una volta combinato l’affare, il metano viene lavorato subito negli scali libici, liquefatto e trasferito in provincia di La Spezia, a Panigaglia, dove subisce la riduzione allo stato primitivo, ridiventando gas da immettere nei metanodotti italiani di Caviaga e Cortemaggiore. Un altro potente prodotto nazionale, dunque, come la benzina Agip. Le ricerche proseguono anche fuori d’Italia, nel mare del Nord, insieme alla Philips e ad altre società.

Ma il capolavoro psicologico di Cefis non è tanto la sublimazione del metano libico, né la provvista, in prospettiva (dal ’73, si dice, in quantitativi crescenti e per la durata di 20 anni), di idrocarburi gassosi olandesi, mediante un oleodotto che attraverserà Germania e Svizzera, per giungere al nostro confine, quanto l’accordo con il governo sovietico per la fornitura di gas russo, sufficiente a colmare la carenza di greggio nazionale.

Il problema, affatto insolubile per i mezzi che l’ENI può manovrare, è quello di estendere la rete dei metanodotti dal territorio italiano, attraverso i Paesi del Comecon, fino alle steppe e ai pozzi sovietici. Una volta sistemato il gigantesco condotto, il metano sovietico si aggiungerà a quello dell’ex colonia italiana per assicurare alle massaie d’Italia l’azzurra e caldissima fiamma del potente mezzo di combustione italiano.

Nel complesso, un modo doppiamente sbalorditivo per aprire: sul piano economico, cedendo alla Russia tubi e condutture in cambio del metano (cessione a prezzo di realizzo per manufatti e materiali altrimenti immobilizzati); sul piano politico, realizzando una entente cordiale, un’alleanza economica tra i due paesi, coi vantaggi di prestigio e di previdenza che ognuno, all’orizzonte politico interno, può apprezzare.

Ecco il (cervellotico) ragionamento che il Cremlino deve aver suggerito al (compagno) dottore-presidente: tu rompi le scatole alle Sette Sorelle; hai quindi le carte in regola per guadagnarti la stima e la fiducia del popolo sovietico. Inoltre per quanto 1’ENI sia appena uno scarafaggio, anche le più spesse epidermidi ne sentono le punture. Sai sfruttare i soldi del contribuente italiano esattamente come noi. Ti daremo il gas delle steppe, che pagherai sempre con gli stessi denari, immettendolo nei metanodotti re-golarmente costruiti con i medesimi soldi e che senza il nostro apporto e quello di Gheddafi si ridurrebbero ad una rete inutilizzata da lasciare agli archeologi del tremila.

Per sommi capi, il linguaggio dei tovarisch sovietici dev’essere stato quello: Cefis, arrivato a Mosca con il solito aereo personale (pagato dallo Stato) e con tanto di staff (id. id.), ne rimane entusiasta. Il fiuto non l’ha tradito. Accordo fatto. Sconvolgendo ogni consuetudine, il Presidente ottiene (senza fatica) un primo piano al Giornale Radio delle 20 per esaltare con malcelata soddisfazione l’ardua conquista.

Due cose sono lapalissiane: che l’affare l’ha fatto l’URSS e che i frutti (pendenti) in termini politici se li è assicurati l’ENI. I compiti istituzionali non sono rispettati, ma i tempi e le scadenze del piano ’80 cominciano ad ottenere i primi riconoscimenti. Plauso in Italia (liberali esclusi), comprensibile gaudio dei comunisti che fra non molto potranno meglio scaldare la pentola della Repubblica Conciliare con il potente metano sovietico.

Una voce che non suona nel deserto

Quanto ai giustizieri della grande stampa, Cefis non nutre preoccupazioni: direttamente o per opportuni accomodamenti essi, pur bravi e indipendenti che siano, si trovano con la penna legata sul pentagramma della cantata Beatus Vir, per soli, orchestra, coro e organo, che tanto piace al padrone. Totalmente all’oscuro di temi musicali vivaldiani, ma ottimo conoscitore di registi, direttori d’orchestra, strumentisti (e pubblico). In un Paese dove la SIPRA, monopolio statale di pubblicità, sovvenziona chi vuole, lui condiziona i tre quarti della libera stampa, chiedendo in cambio discrezione e misura. È ingenuo chiedersi come mai l’ENI mantenga un giornale dalle passività intuibili (la Tributaria non ha mai l’occasione di darci un’occhiata? ), come l’organo ufficiale del centro-sinistra petrolifero. «I1 Giorno» serviva a Mattei, negli anni del centrismo, per sostenere una politica più avanzata, chiara prolusione a quel centro-sinistra che era nell’aria e nel cuore dell’uomo di Matelica; una politica contrabbandata coi soliti denari dello Stato, a mezzo di editoriali, di incisi, di interrogativi palesemente frodisti, di appoggio ai socialisti che premevano alle porte, allora (come oggi) alleati di fatto coi comunisti; quotidiano di accesa intonazione economico-marxista, laico al cento per cento.

Un giornale discutibile sotto ogni punto di vista. Per il dumping dei suoi criteri distributivi. la ferocia del linguaggio, l’assoluta manca di fair play e d’autocritica, il sussiego delle sue firme anche sportive – apparente austerità delle tesi in perpetua e sbalorditiva collusione con quelle del confratello comunista, la disinvoltura polemica gli argomenti e la tematica. Di questo strumento di informazione si potrebbe dire, brevemente, che costituisce il fratello maggiore, a periodicità quotidiana, di certi rotocalchi a sensazione dallo scandalismo facile e assolutamente inqualificabili quanto a metro di giudizio morale.

Se un quotidiano deve essere, anzitutto, autorevole per risultare credibile (o viceversa), ebbene, « I1 Giorno » non è mai stato, né potrà essere (a meno d’una metempsicosi) un portavoce attendibile e rispettato. I cervelli ci sono, i mezzi finanziari abbondano, lo spazio non manca, ma il vessillo della malafede e dell’equivoco tolgono ogni patina di dignità e di stile a questo quotidiano petroliero.

Comunque era tollerabile che un ente come 1’ENI e un Presidente come Mattei potessero disporre di un portavoce ufficioso, arma di difesa personale contro gli attacchi, un tempo proverbiali, all’oligarchia dell’oro nero italiano. Ma ora il centro-sinistra è in piena fioritura, Mattei è scomparso, i socialisti son dentro il governo fino al collo, arbitri della situazione; l’ENI si è garantita l’immunità polemica della stampa e dei partiti; la politica estera segue pedissequamente la spinta impressale dal sottogoverno petrolifero: quale giustificazione per i miliardi gettati al vento nella gestione passiva di un quotidiano che ha fatto il suo tempo?

Ha fatto il suo tempo perché ha completato il piano politico di Mattei ed è quasi giunto a realizzare quello di Cefis. Inserire i comunisti alla conduzione del potere in Italia: non siamo forse alla vigilia? Una volta raggiunto lo scopo, che cosa diventerà «Il Giorno»? Eugenio Cefis all’occorrenza saprà sbarazzarsene, saldando ogni pendenza passiva con la prescrizione e l’euforia del successo?

Giriamo la domanda al dottore di via Chiossetto. Non risponderà, abbassando gli occhi. Entrare nella sua privacy è sconveniente e sbagliato. I1 meno che ci possa capitare, è di finire immediatamente sulle pagine (nere) del libro (nero) dell’oro (nero), segnati a dito come imbecilli.

L’oro e gli stracci della maga Circe

«Il Giorno», coi suoi quotidiani passivi di milioni, con quote terrificanti di ammortamenti per un macchinario modernissimo, in una sede sorta su terreno pagato due miliardi (uno sperpero che rasenta i margini dello scandalo. I1 Ministro delle Partecipazioni Statali né è davvero all’oscuro? E ignora e tace perché altre indebite presenze sono invischiate nell’affare?); un foglio con perdite colossali per vincere allo sprint la concorrenza (spedizione in aereo, con vettori speciali); lanci pubblicitari, pagine a colori, supplementi e inserti che manderebbero in bancarotta il « Corriere della Sera » viene tenuto in vita. Un giornale inutile, sbagliato, deprimente.

La sua esistenza è un paradosso: la legge istitutiva dell’ENI non lo prevede, non lo giustifica, non può ammetterlo. Ma per Eugenio Cefis è una prova di forza, un distintivo, una presenza, uno strumento di potenza. Fa parte del suo stile. Lo mantiene a dispetto della legge statutaria, del Comitato Ministeriale che dovrebbe vigilare sulla gestione di un ente pubblico come 1’ENI, del Governo e del Parlamento, dell’opinione pubblica. I passivi del « Giorno » nessuno li conosce con esattezza, salvo Cefis e i suoi diligenti scudieri. Nei bilanci dell’Ente Idrocarburi entra anonimo, confuso nel calderone di fine anno.

Tuttavia il Presidente con le sue sensibilissime antenne riceve e recepisce interessanti indiscrezioni: altri quotidiani sembrano avere gli anni contati, il petroliero Monti e il cementiero Pesenti – col quale lo abbiamo recentemente visto conversare cordialmente: cosa sta succedendo? Un armistizio fra il cane-lupo a sei zampe e il rappresentante della grande industria privata? Qualcosa sotto ci deve essere; i due sono astuti, ma Cefis è perfido il doppio quando sorride; Monti e Pesenti, dicevamo, possono stancarsi di finanziare le loro catene di giornali; il «Corriere» dei Crespi sta in piedi perché ha trovato un piedestallo e si è allineato; le sue punte di diamante, come Montanelli, sparano a salve, ammansite, per la sopravvivenza della nobilissima città di Venezia. In prospettiva da anni ’80 il fiuto di Cefis non dovrebbe ingannarlo: col petrolio di Stato, la lana di Stato, le auto (nonostante la Fiat, l’Alfa Romeo si espande) di Stato; farmaci, ospedali, banche, ferrovie, elettricità, sale e sigarette (e, presto, pillole) di Stato, verrà l’alba del giornale di Stato. Come la Pravda, il «Giorno». Utopie balorde? Magari.

Facezie anche le imputazioni di peculato, sia nella distrazione di impianti e personale, sia nello spreco di denaro pubblico in imprese editoriali?

Prevale quasi ovunque l’interpretazione letterale della Genesi: il lavoro non nobilita l’uomo, ma è la sua condanna, il debito che dovrà pagare per generazioni sino alla fine del mondo d’una colpa originale. Intesa così fedelmente, la teoria del successo è subito spiegata, con tutta la libertà d’iniziativa, di mezzi, di ripieghi concessa.

Cos’è allora la distrazione dell’ENI, cosa può importare la megalomania a spese della gente di una testata?

A breve o lontana scadenza, il Presidente dell’ENI saprà dimostrare, con l’alchimia e la sufficienza del genio, come l’uso (immorale) dei soldi dello Stato giovi alle fortune trascendentali dello Stato stesso.

Questo è Cefis pp. 21-33 (2 continua)

Qui il primo capitoloterzo capitolo, quarto capitolo, quinto capitolo, sesto capitolo, settimo capitolo, ottavo capitolo, nono capitolo, undicesimo capitolo, dodicesimo capitolo

Commenta su Facebook

Tags: