Grande entusiasmo nei palazzi del potere per i dati forniti dall’Istat di oggi. Il Pil che nel 2015 è salito dello 0,8%, la disoccupazione è rimasta stabile all’11,5% e il debito fermo al 132,6%. Il miglior dato dal 2007 ha subito detto il ministro del lavoro Poletti. Dal punto di vista statistico ha sicuramente ragione. La realtà è che nessuno degli italiani se ne accorge. Perché? Perché quello che si vede è una semplice reazione statistica. L’effetto del ciclo. Del tutto naturale guadagnare qualche piccola percentuale da prefisso telefonico dopo aver perso il 7% del Pil in sette anni, il 6,5% dei consumi, il 31% degli investimenti e aver quasi raddoppiato la disoccupazione dal 6,1 a poco meno del 12% per cento. In altri tempi si sarebbe chiamato il rimbalzo del gatto morto che prima di esalare l’ultimo respiro vive la convulsione terminale.La realtà è quella che non ci stanchiamo di ripetere. Fino a quando l’Italia resterà legare alle regole dell’euro non potrà avere nessun futuro. Per capire basta guardare quello che accade nei Paesi europei che non adottano l’euro. Sono tutti in forte crescita. La Svezia addirittura ha raddoppiato la velocità: dal +2,6% del 2014 al +4,5% del 2015. Un autentico miracolo fatto da un Paese economicamente e socialmente avanzato che ha un grande vantaggio rispetto agli altri: ha tenuto la sua moneta. I vicini finlandesi, che invece sono caduti nella trappola della moneta unica continuano a perdere terreno.
Per riprendere quota l’Italia avrebbe bisogno di tagliare le tasse in misura consistente. Almeno il 5% in tre anni in maniera tale da portare la pressione fiscale dal 43% attuale al 38%. Inoltre bisognerebbe varare un gigantesco piano di investimenti pubblici. Non necessariamente grandi opere che comportano complessità notevoli. Basta anche meno come la manutenzione del territorio, scuole da riparare, ospedali da rendere più efficienti. Tutte soluzioni, però, bloccate dall’appartenenza all’euro e dagli stupidissimi criteri di Maastricht. Così sopravviviamo come i sonnambuli d’Europa.
Fonte: Un’Europa diversa