La guerra in Afghanistan è un conflitto che insanguina l’area da decenni; adesso sta entrando in una fase nuova che non promette pace, ma l’ingresso di nuovi attori nella crisi.
Come ogni anno, con l’arrivo della primavera la guerra in Afghanistan conquista l’attenzione dei media per le offensive scagliate dai Talebani; venerdì scorso c’è stato il peggior attacco contro l’Ana (Afghan National Army) dal 2001, gli insorti hanno colpito la caserma del 209° Corpo d’Armata a Mazar-e-Sharif compiendo una carneficina; si parla di 150 morti e almeno 60 feriti. Un disastro che ha portato alle dimissioni del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e del Ministro della Difesa.
Nella realtà, l’Ana non è in grado di sconfiggere insorti, signori della guerra e trafficanti che controllano vasta parte del Paese; ha un organico di soli 130-140mila effettivi a causa delle continue perdite e diserzioni che ne falcidiano le fila, troppo pochi, male addestrati ed equipaggiati per compiere la loro missione. Ad essere efficienti sono solo le tre Brigate Commando (meglio pagate e addestrate delle altre), fanteria d’assalto e Quick Reaction Force, ma sono sottoposte a un’usura altissima e a un continuo utilizzo che le logora.
Né si può risolvere il problema con il pugno di elicotteri leggeri (Md 530F) e di aerei da supporto (per lo più A-29 Super Tucano) finalmente forniti all’embrionale Aeronautica afghana, chiamati ad operare sull’immenso teatro imposto dalla guerra in Afghanistan.
La prova generale c’è già stata da quando la Nato ha ritirato i suoi reparti combattenti per avviare “Resolute Support”, la missione di addestramento e formazione, e l’onere delle operazioni è ricaduto essenzialmente sull’Ana. Solo il puntello di “Freedom Sentinel”, la missione Usa di supporto militare istituita da Obama nel 2015, ha permesso di riprendere Kunduz, dopo che era caduta in mano ai Talebani, o di evitare che gli insorti si impadronissero di Laskar Gan.
Col tempo la situazione è solo peggiorata, con l’insorgenza che controlla aree sempre più vaste del Paese, e le forze di sicurezza il più delle volte incapaci di reagire. Con questo scenario il tempo lavora per i Talebani: cercano di arrivare al tavolo delle trattative da una posizione di forza e nel frattempo di espellere concorrenti dal gioco (vedi la sanguinosa ostilità verso l’Isis, che pur presente nell’Est del Paese, nella provincia di Nangarhar, stenta a svilupparsi per la guerra che gli viene fatta dagli insorti che lo vedono estraneo al territorio).
Il problema è quello di sempre: la guerra in Afghanistan è alimentata dallo scontro in atto per il controllo sull’Asia Centrale; in un inestricabile groviglio vi agisce il Pakistan, che considera Kabul il proprio cortile di casa; la Cina, che ha finalmente compreso d’aver sottovalutato un’area di crisi che può allargarsi al suo Xinjiang e comunque sbarrare la strada alle Nuove Vie della Seta ed alla sua penetrazione in Asia Centrale; l’India, che intende anch’essa proiettarsi in quel quadrante in concorrenza con il Pakistan; la Russia, che non vuol cedere il passo nella sua antica zona d’influenza e infine gli Usa, che intendono rimanervi per sbarrare la strada all’egemonia degli altri.
Un pasticcio sanguinoso che nessuno vuole risolvere sul serio, meno che mai Usa e Pakistan, che utilizzano la guerra in Afghanistan per bloccare gli interessi altrui, anche a costo di rimanervi impantanati in eterno.
Nessuno può uscirne vincitore, ma non importa; per chi manovra, Washington e Islamabad su tutti, è già un successo che la guerra continui e nessun altro possa cantar vittoria; ed è un successo più grande se nuovi attori ne vengono risucchiati rimanendone impantanati, come in questi tempi sta accadendo a Pechino e potrà accadere ad altri in quella tomba degli imperi che è sempre stato l’Afghanistan.
di Salvo Ardizzone