Su Economonitor Tim Duy spiega che una vera unione fiscale funzionante deve essere fatta di trasferimenti, non di prestiti, e che siamo ad anni luce da una simile soluzione della crisi.

di Tim Duy – Stavo guardando alla recente sintesi di FT Alphaville del lavoro di Richard Koo di Nomura sulla causa principale degli squilibri nell’eurozona. La tesi principale è che la BCE ha mantenuto i tassi di interesse bassi negli ultimi dieci anni per sostenere la Germania perché le regole di Maastricht vietavano una soluzione di politica fiscale alle disgrazie della Germania. Ma i tassi sono risultati eccessivamente bassi per la periferia, provocando la comparsa di bolle e squilibri insostenibili. In sostanza, la radice del problema è stato una politica monetaria su misura per la Germania, aggravata da una struttura fiscale rigida.

Fin qui tutto bene. Ciò che ha attirato la mia attenzione è stata questa citazione da Koo:

“Purtroppo nell’eurozona ci sono state crescenti richieste di un’unione fiscale. Ma questo farebbe solo peggiorare il problema, obbligando a una stessa politica fiscale su tutti i paesi, che siano in una fase di recessione o meno.”
Questo è vero per quanto riguarda ciò che sta emergendo come “unione fiscale” nell’eurozona, in gran parte niente altro che un impegno a rigorosi obiettivi di bilancio. Questo, tuttavia, non è quello che io definirei una unione fiscale. Quando uso il termine unione fiscale, penso a un’autorità centrale di bilancio in grado di rendere automatici i trasferimenti interni.

Paul Krugman ha fornito alcuni ottimi esempi dell’importanza di tali trasferimenti interni negli Stati Uniti. Ad esempio, vedere la sua discussione sul Texas e la crisi dei Savings e Loans:
“La crisi è costata ai contribuenti circa 125 miliardi di dollari, quando ancora era denaro reale. Circa il 60 per cento delle perdite erano in Texas. Quindi sono circa $ 75 miliardi di dollari in aiuti – non prestiti, ma trasferimenti a titolo definitivo.
Il PIL del Texas era circa $ 300 miliardi nel 1987. Quindi è stato l’equivalente di dare – non prestare, e neanche prendere una quota in partecipazione – alla Spagna il 25 per cento del suo PIL per salvare le sue banche.”

E negli Stati Uniti non è stato nemmeno trattato come un problema politico interstatale.

Inoltre, vedere il suo esempio sulla Florida:

“A quanto ho letto, fra il calo del pagamento delle imposte senza alcuna corrispondente diminuzione delle prestazioni federali, più una rete di sicurezza di aiuti – senza contare Medicaid, che renderebbe la cifra ancora più grande – in Florida hanno ricevuto un qualcosa che ammonta a un trasferimento annuo da Washington di più di 31 miliardi di dollari, o più del 4 per cento del PIL dello Stato. Si tratta di un trasferimento, non di un prestito. Ed è molto grande.”

Questi sono esempi di come gli shock asimmetrici sono ammortizzati all’interno di un’unione fiscale. Trasferimenti, non prestiti. Perché la zona euro abbia successo, c’è bisogno di questo tipo di infrastruttura fiscale. Purtroppo, penso che siamo ad anni luce di distanza da un’unione del genere, e quello che pensano sia un’unione fiscale – dei severi limiti di deficit – è un qualcosa di molto diverso, un’unione che, come dice Koo, peggiorerà le cose, non le migliorerà. Uno dei tanti motivi per cui resto un euroscettico.

Articolo originale: What Fiscal Union Means 

Fonte: http://www.investireoggi.it/economia/economonitor-che-cosa-significa-veramente-unione-fiscale/

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